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Wagner e Thomas Mann. La reminescenza del mito. Seconda parte
Questa è la seconda parte della conferenza che Thomas Mann tenne nel 1933 all’Università di Monaco intitolata Dolore e grandezza di Richard Wagner in cui chiarì quanto Wagner fosse lontano da qualsiasi legame attribuitogli con il nazismo e perchè Mann asserisce che della musica è il simbolo più autentico. In questa sede abbiamo analizzato in due parti la conferenza che si trasformò in uno scritto poi pubblicato nello stesso anno dalla Neue Rundschau.
Wagner ha infuso la psicanalisi e il mito nelle sue opere. Le reminescenze, le allusioni, l’inconscio si trovano trasfusi nei leitmotiv (Leitmotive declinati in tedesco plurale) che percorrono e si dispiegano come messaggeri di un sistema rivoluzionario, che attraverso i miti affonda le sue radici nel senso primordiale della storia. Fonde l’antitesi di psicologia e di mito creando i presupposti per un’analisi dettagliata e raffinata delle sue eroine che nella Tetralogia dell’Anello si trasforma in epopea epica.
Thomas Mann fu un grande ammiratore di Wagner e percepì il valore delle sue intenzioni leggendone la polivalenza che a volte sembrerebbe contraddittoria: “L’inscindibile mistura di demonismo ed di borghesismo… e l’estremismo antiborghese dell’indole sua… si manifesta nel carattere esaltato di ogni suo stadio.” (Thomas Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, pref. Mazzino Montinari, trad. L. Mazzucchetti, Discanto ed., Fiesole (FI), 1979, p. 41.) Il demonismo tradotto in certi suoi personaggi come l’Olandese volante (Der fliegende Holländer, 1840-1864): “Quel personaggio demoniaco, maledetto, assetato di pace e di redenzione” (Ibidi, p. 42).
L’atmosfera borghese regna invece nel suo ordine pedantesco, nell’eleganza d’ambiente necessaria per lavorare coscienziosamente e accuratamente, per costruire quegli spartiti, esempio di raffinatezza anche grafica, nonostante il fervore e l’energia prepotenti, gli elementi sovversivi e sconcertanti che sono l’emblema della purezza della forza del compositore. L’arte è per lui catarsi, liberazione da quei vincoli a cui è incatenato come essere umano ma non come artista, la sofferenza che lo attanaglia sempre è supportata dalla speranza di una futura società purificata: “Ad un tempo che io debbo prima preparare con le mie sofferenze.”(Ibid, p.47). Speranza purtroppo vana se non per quei pochi che hanno percepito la sua missione. Ma Wagner, che esiste solo per l’arte afferma: “Sono completamente quel che io sono soltanto mentre creo.”(Ibid, p. 47) e con ciò profetizza qualcosa che non si è forse realizzato a dovere, quella “società senza distinzione di classe, liberata dal lusso e dalla maledizione dell’oro, fondata sull’amore.” (Ibid, p. 49) Una società cui Sigfrido, unione di popolare e intellettuale, libero rinnovatore, un Bakunin, come disse George Bernanrd Shaw, aspirava.
L’unica critica di Thomas Mann a Wagner è questa sui suoi scritti teorici, sulle considerazioni riguardo la sua estetica, che pone la sua opera d’arte totale al di sopra di tutte le altre. “Quel che io sempre criticai è la teoria wagneriana, questa addizione tra musica, parola, pittura e gesto che vuol spacciarsi per sola verità…di un’estetica in base alla quale il Tasso dovrebbe essere inferiore al Sigfrido.” (Ibid, p. 12) L’idea di una fusione tra le arti implica qualcosa di dilettantesco e nel dilettantismo sarebbe naufragata, se non le avesse tutte assorbite con forza sublime il suo inaudito genio espressivo: “Ecco sciolto l’enigma del genio che elabora poesie non da leggere ma da agire, da rappresentare, da suonare": quelle che Mann definisce “atmosfere musicali”.
La totalità che deriva dall’assemblaggio di tutte queste arti adopera le sue componenti come mezzo per sintetizzarle e sublimarle nell’insieme. La pittura in sé per sé non dice niente a Wagner, gli è indifferente mentre la poesia sì, l’ha sempre amata, soprattutto Shakespeare: questo perché la poesia può “udire” al contrario della pittura che può essere soltanto ammirata dagli occhi. Wagner, essendo un uomo dell’udito non può comprendere l’arte figurativa se non legata e fusa alla poesia ed alla musica: ecco la sintesi wagneriana.
Quando noi morti ci destiamo (1899) ed il Parsifal (1865-1882) sono le due opere che si rassomigliano di più per due autori, l’uno rinnovatore nel teatro, l’Ibsen che sublimò la tecnica di Dumas, che a volte riecheggia nel suo dramma borghese; l’altro nella musica. Due opere tardive, due celebrazioni di congedo (Ibid, p. 6), che riassumono e rievocano il processo di una vita trascorsa nel superamento, nell’innalzamento di un’arte al di sopra di sé stessa, fino all’ultima “dichiarazione d’amore per la vita” (Ibid), che nel celeste olimpo degli Dei caduti sulla terra risuona come se fosse un’unità spirituale e incrollabile mentre anela all’ultima sua aspirazione.