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Praz. Il catalogo dell'anima
Il primo incontro con Mario Praz (1896-1982) si svolge solitamente sui libri di letteratura inglese come La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica della BUR, oppure sull’ancora più ovvia, benché miliare, Storia della letteratura inglese, pubblicata sia da Sansoni sia dalla BUR. L’anglista più significativo del ‘900, ben oltre i confini nazionali, era un collezionista di oggetti d’arte ed in questi riflette profondamente sé stesso, esattamente come per i suoi studi.
Praz ha vissuto per lungo tempo in una casa di Via Giulia all’interno di Palazzo Ricci, casa estremamente ampia ed in cui la sua collezione si snodava in espansione, accogliendo sia gli ospiti sia la famiglia di Praz fino al 1943, anno di separazione dalla moglie da cui ebbe Lucia, sua unica figlia. Praz vi rimarrà fino al 1969, anno in cui si trasferirà nell’attuale Casa Museo Praz. Nel 1958 la sua collezione era già composta, come appunto viene descritto esaustivamente nel libro autobiografico La casa della vita, edito da Adelphi. All'arredo della nuova casa saranno aggiunti ancora circa duecento pezzi fino al 1982.
L’introduzione nella nuova casa di Palazzo Primoli, di cui è stata rilevata la collezione nel 1986 dalla Soprintendenza Speciale all’Arte Contemporanea – Gallera Nazionale d’Arte Moderna, è fin dall’inizio sintomatica. Nell’ingresso un’acquaforte di James Gillray ritrae uno Shakespeare Sacrificed; or The Offering to Avarice, datato 1789, l’inizio della Rivoluzione francese. Un’allegoria del bardo per antonomasia accoglie il visitatore quindi, introducendolo malinconicamente alla solitudo e alle necessità del creativo, che mai come in questo caso ha coinciso coerentemente con il critico, proprio come si augurava Kafka. Poco sopra l’olio di Il Colosseo sotto la luna, soltanto la prima di una serie sterminata di vedute immaginarie.
La Galleria-salone, ancora a sinistra dopo la porta, mostra il primo doppio di una casa assoluto specchio dell’intimità, come leggevano coerentemente gli antropologi Bachelard e Durand, e come lo stesso Praz afferma con questa dolente frase: ”Le case non tradiscono mai”. Il dipinto cui mi riferisco è in sovracopertina al primo catalogo del Museo Mario Praz ed appartiene a Vincenzo Abbati (Napoli 1803-1866). Rappresenta Maria Isabella di Napoli nel salone della sua villa a Capodimonte ed è del 1836. Non è a caso che la curatrice, Patrizia Rosazza-Ferraris, lo abbia scelto. Il salone della regina è quasi la copia carbone della Galleria-salone di Praz. La posizione della finestra e la sua forma, la posizione della porta che fa da ingresso rispetto alla sala, i divani ed i tavolini in stile neoclassico che imperano per l’intera abitazione.
Tutte le informazioni che compongono il libro provengono da Praz stesso, che ha composto il primo catalogo con settantasette pagine dattiloscritte, corredate da annotazioni incollate quasi le une sulle altre: è chiaro che il catalogo appena composto di trecentotrentadue pagine era quanto di più necessario al mantenimento organizzativo del Museo Praz. Inglobando con meticolosità tutte le annotazioni praziane, e dotato di illustrazioni, l’inventario segue pedissequamente il criterio topografico di Praz per l’ordine delle opere in esposizione, allo stesso tempo affrancandolo dal deperimento cartaceo e attualizzandone la nomenclatura.
Le nove sale si dipanano in ordine regolare sia nel catalogo sia nella disposizione della casa, senza creare fratture per il visitatore. Le sale, dopo l’ingresso e la galleria sopra accennate, proseguono nello studio del critico e subito dopo nella sua camera da letto dove si nota la presenza di cere policrome di scene mitologiche oppure religiose, diffuse innumerevoli in tutto il perimetro della casa. Un segno particolare scelto da Praz, che ne espone una collezione che arriva fino alla ritrattistica, e visibile in tutte le stanze.
Nella camera da letto che segue allo studio - si tratta di una casa circolare dove le stanze si susseguono le une alle altre senza soluzione di continuità - si trovano vari pannelli arabeschi insieme a svariati ventagli e raffinate stampe di Jean Proud’hon di allegorie sull’amore.
La sala delle biblioteche accoglie ben quattro cere policrome di Giovanni Bernardo Azzolino che raffigurano un bambino che rappresenta il Limbo, e tre mezzi busti per Inferno, Purgatorio e Paradiso, le cui espressioni sono particolarmente struggenti. È però nella sala da pranzo che i beloved poets di Mario Praz si celebrano con maggior sottigliezza e pur nell’ostentazione per chi ne dipana le frequenze. Questa stanza si ubica sul lato interno e posteriore della casa ed è l’ottavo vano. La simbologia dell’otto come segno di trascendenza e di passaggio tra la vita e la morte non sarà sicuramente sfuggita allo studioso che sa che è anche simbolo dell’infinito e rappresenta il doppio (il quattro più il quattro ed è il cubo di due). Praz ha posto in questa stanza due Memento mori: uno di uomo e uno di donna (di Anonimo artista tedesco ed in terracotta dipinta), tra la biblioteca e prima della camera della figlia, ricostruita tale e quale a come era a Palazzo Ricci sebbene non lei vi abbia mai messo piede.
La stanza è peraltro illuminata da un lampadario a forma di mongolfiera, che viene riprodotta in un quadro ad olio su un incidente di volo; un’altra mongolfiera in ascensione è ritratta su una silhouette di manifattura francese su specchio dorato, brunito e graffito. Chi sa quale amante di Poe fosse Praz - lo ha tradotto e sempre ripreso: famosa è la sua versione di The Raven (Il corvo) - non può non ricordare la prima e celebre burla sui media di carta, un secolo prima degli alieni di Welles. The Balloon-Hoax (La burla del pallone), Poe l’ha pubblicata come notizia a cui tutti hanno creduto, sul New York Sun nel 1844. Nella stanza da pranzo di Praz di burle della mongolfiera ce ne sono ben tre perché la prima mongolfiera volò sull’Atlantico soltanto 75 anni dopo, e lo Zeppelin nel 1900. Vi furono varie ascensioni ma è estremamente più probabile che il riferimento di Praz fosse la burla di Poe.
E, non ultimo, da Poe il nostro Praz ha ripreso uno dei titoli di saggistica più noti tale e quale, La filosofia dell’arredamento (pubblicato nel 1945 e ristampato con illustrazioni nel 1964, Longanesi poi TEA; l’originale The Philosophy of Furniture di Poe è del 1840), confermando quanto mobili, quadri e suppellettili varie fossero il ritratto dell’intimità del loro possessore, dei suoi gusti, delle sue parabole, letterarie e filosofiche.
Questo amore per la casa come specchio della vita avvicina Praz a tanti dandy come Wilde che hanno fatto dell’estetica un correlativo oggettivo di sé stessi. E Praz, ordinando i suoi arredi in modo topografico, ovvero aggiungendo la scheda dell’oggetto all’ambiente di appartenenza e scoprendone ben 782 grazie al catalogo appena edito, rivela quanto ogni oggetto sia come una luce proiettata su di sé. Similmente a quelle Cornici di apparati effimeri con fuochi artificiali in mostra nella sua casa (ben quattro di queste Cornici di manifattura olandese sono nella Galleria), questi oggetti non fanno che far risuonare una delle tante corde del Maestro, che di tanti strumenti musicali ha disseminato la propria casa, cercando strenuamente di catalogarne l’anima, sfaccettatura su sfaccettatura, in lampi di luce appena balenati.