Supporta Gothic Network
Teatro Quirino. Una pirandelliana asserzione in maschera
Una commedia agrodolce di Eduardo De Filippo al Teatro Quirino di Roma, Ditegli sempre di sì del Teatro Stabile di Calabria con la regia di Geppy Gleijeses e Gennaro Cannavacciuolo tra gli attori.
Il sottotitolo potrebbe suonare così: "Ovvero come assecondare un malato dimesso dal manicomio, ma forse inguaribile". La protezione che la famiglia, in particolare la sorella Teresa (che è l'unica al corrente), pone in essere, non basta, purtroppo. La malattia mentale non può nascondersi a lungo, soprattutto se unita ad una sensibilità per il vero che rende la persona ingenua e scomoda agli altri, prigionieri delle proprie maniere e maschere.
Nelle vesti del candido protagonista, Geppy Gleijeses, qui anche regista e, da quest'anno, Direttore artistico del Teatro Quirino; nei panni di Luigi, il figlio Lorenzo Gleijeses, che dà saggi di virtuosismo interpretativo; in quelli en travesti, di Teresa, il bravo Gennaro Cannavacciuolo.
Michele Murri, ex commerciante di orologi, torna a casa dopo un anno di cura, ma prende alla lettera ogni gesto e ogni parola. Perciò, credendo che la sorella voglia sposare il loro padrone di casa, ne parla come di accordo fatto alla figlia di lui, creando un equivoco esilarante. Poi, al pranzo di compleanno dell'amico Vincenzo, un macabro fraintendimento gli fa inviare un telegramma al fratello di questi per annunciare la morte dell'amico, che si riconcilierebbe con lui solo da morto. Finché, udendo le voci di presunta pazzia su di un invitato, Luigi, viene fermato, fortunatamente in tempo, mentre sta per tagliargli la testa, unico rimedio idoneo a guarirlo. Viene così condotto via dalla sorella, che solo ora spiega agli amici come veramente stanno le cose.
Questo De Filippo mi ricorda Pirandello, il suo umorismo che si tinge di dramma. Perché il convalescente assomiglia un po' al Ciampa de Il berretto a sonagli (1918). Il ragionamento di Michele, "vedi come fila", stupisce gli astanti, in più occasioni, non solo di precisazione linguistica. Forse perché la verità è indicibile e la può dire soltanto un pazzo, come ci ha insegnato "Il berretto"? Commedia, quest'ultima che, guarda caso, Eduardo De Filippo interpretò, in versione napoletana nel 1936, rivestendo proprio il ruolo dello scrivano, che nega il tradimento della moglie.
La verità di Michele, quella delle parole univoche, ha la stessa sorte della verità di Ciampa, quella delle parole senza secondi fini. Una per tutte la parola "manicomio", che per Michele non può nemmeno pronunciarsi, sostituita da un rumore quasi di macchina in corsa che scappa via. Per Ciampa, il manicomio finisce paradossalmente coll'essere l'unico luogo dove può dire la verità la signora che dice che il marito, datore di lavoro dello scrivano, la tradisce con la moglie di lui.
E in manicomio forse tornerà Michele, perché lì può prendere le parole alla lettera e perché non fa bene "dire sempre di sì" a chi non può affrontare la verità. Negarla, poi, protrae solo il problema. Quando la si dice, solo alla fine, la sorella riporta a casa Michele, per occuparsene lei d'ora in poi.
Come coloro che si occuperanno per sempre di Enrico IV (cfr. anche il film di Bellocchio), sempre di Pirandello (1922), altro personaggio rinchiuso in una casa-prigione per tutta la vita. Al sedicente imperatore non più pazzo (ma che si finge tale una volta guarito), a lui pure, continueranno pietosamente a "dire sempre di sì".