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Il dubbio. Il crinale teoretico dell'incertezza
«Dubium sapientiae initium» «Il dubbio è l'origine della saggezza», (René Descartes). Dopo vari anni dedicati al cinema, Stefano Accorsi torna alla sua antica passione teatrale per interpretare Il dubbio.
Il testo del dramma di John Patrick Shanley, vincitore del Premio Pulitzer 2005, che ne ha anche diretto una versione cinematografica con protagonista Philip Seymour Hoffman, si impernia sull’ambigua vicenda che vede coinvolto padre Brendan Flynn, un sacerdote che insegna nella St. Nicholas School, nel quartiere newyorkese del Bronx. I fatti si svolgono nel 1964, un anno dopo la morte di John Fitzgerald Kennedy e due anni dopo l’inizio del Concilio Vaticano II. Anni drammatici, ma non più di quelli in cui l’autore cominciò la stesura del dramma: Il dubbio fu iniziato nel 2002, ossia un anno dopo la tragedia delle Torri Gemelle, altro evento epocale sulle cui precise cause e responsabilità ancora si addensano torbide nubi, tali da seminare potenti incertezze. Ed è questo l’effetto che la pièce vuole provocare: lasciare lo spettatore sul crinale dell’impossibilità di stabilire se il protagonista sia effettivamente colpevole.
Tutto si gioca in realtà nello scontro verbale tra il protagonista e la preside della scuola, Suor Aloysia Beauvier (Lucilla Morlacchi), che accusa il giovane sacerdote di aver abusato del piccolo Donald Muller, l’unico allievo afroamericano.
In realtà, il contrasto avviene su due diverse Weltanschauungen, quella estremamente conservatrice della suora, contraria persino alla penna a biro, “diseducativa” rispetto al corretto apprendimento della calligrafia, e quella “conciliare” di padre Flynn: per suor Aloysia, “ogni scelta lassista fatta oggi avrà le sue conseguenze domani”. Per padre Flynn, invece, gli uomini di chiesa devono essere considerati dai parrocchiani quasi come membri della famiglia e non devono impartire soltanto direttive improntate a una mentalità moralistica e afflittiva. Comprimari del dramma sono una giovane suora (Alice Bachi), costretta suo malgrado a testimoniare contro padre Flynn, e la madre del ragazzo (Nadia Kibout), che invece prende le difese del sacerdote.
Il dramma si conclude con il trasferimento del sacerdote in un’altra parrocchia, benché le autorità ecclesiastiche non credano alla sua colpevolezza; mentre la sua accusatrice ammette di essersi servita anche della menzogna “a fin di bene”.
Del resto, Shanley è insieme autore di un testo e cittadino di una nazione, gli Stati Uniti d’America, che ha perduto i propri padri e le proprie certezze: ma tale considerazione si potrebbe estendere a tutta l’umanità moderna, la quale dopo Copernico, come ammoniva Pirandello, ha smarrito il riferimento al centro del mondo, perdendo la convinzione della propria importanza e considerando sé stessa “men che niente nell’Universo”.
Il dramma ha qualcosa di agonico, nel senso che i dialoghi sono veri e propri duelli, dove le armi “improprie” sono costituite dalla capacità “sofistica” di manipolare l’avversario, di demolirlo o di usarlo per corroborare il proprio teorema. Del resto, il dialogo è la forma di esperienza “che più si avvicina alla tortura”, come ha osservato la scrittrice belga Amélie Nothomb, e gli stessi dialoghi di Platone hanno ben poco della presunta serenità olimpica dei Greci: Socrate si vantava di interrogare sottoponendo l’interlocutore a una sorta di tortura che lo costringeva a mettere in discussione tutte le sue verità consolidate (cfr. Teeteto 150b–c).
Nella conferenza stampa, Sergio Castellitto ha sottolineato come il testo in qualche maniera sia diventato più “archeologico”, da quando un nero è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Ed è a proprio a Barak Obama che è stata dedicata la “prima” romana del dramma.
Da par suo, Stefano Accorsi, felice di aver recuperato le atmosfere del teatro, si è dilungato anche sulla versione francese, messa in scena da Roman Polanski, che è molto diversa dalla nostra: Polanski rispetta di più quella che l’attore bolognese ha chiamato la “anglosassonicità” del testo, che finisce per somigliare a un “dramma da camera”, un Kammerspiel, dove l’insistenza sulla relatività della verità assume una dimensione shakespeariana. Del resto, il regista franco-polacco ci aveva già abituato a confronti drammatici tra persone dai conflitti irrisolti. Si pensi a La morte e la fanciulla, un film dove vittime e carnefici si scambiano continuamente i ruoli (nello scenario di un paese sudamericano da poco rinato alla democrazia, una coppia che ha combattuto per la libertà sottopone a un serrato interrogatorio colui che crede essere stato il loro torturatore, estorcendogli una confessione ambigua e risparmiandogli la vita).
La versione italiana invece non nasconde gli aspetti più tragici, scanditi dalle immagini che danno al dramma un tono profondo e misterioso (si potrebbe affermare che la chiesa in rovina e il kitsch delle croci hanno quasi riscritto il testo).
E come ha osservato Lucilla Morlacchi, il primo atto ha una struttura più cinematografica, al punto che si avverte forse l’influsso di David Lynch, mentre il secondo è decisamente più teatrale. Anche la colonna sonora, affidata alle songs di Bob Dylan, sembra quasi una rilettura del testo: il cantautore ebreo ci accompagna nei vari sipari chiosando sia la dimensione politica del dramma (Maggie’s Farm, Hurricane), sia quella più interiore e introspettiva (Not Dark Yet, Tangled up in Blue).
L’adattamento di Margaret Mazzantini è stato significativo soprattutto per il linguaggio. Del resto, come ha rilevato Accorsi, la lingua inglese si presta molto ad un certo tipo di sonorità, ritmo e immediatezza: aspetti che non è sempre facile adattare in italiano; ma la Mazzantini è riuscita felicemente nel suo intento, cosicché il testo suona quasi come una canzone rock ed è dotato di una carica visionaria maggiore che se ci fosse identità tra autore del testo e regista.
In conclusione, si tratta di un dramma di estrema attualità, soprattutto in un contesto in cui la chiesa di Benedetto XVI sembra aver di nuovo ripreso il timone in una direzione conservatrice, che appare sempre più distante dallo spirito del Concilio Vaticano II (come dimostrerebbe la revoca della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità San Pio X, i principali contestatori del Concilio stesso).