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La Scala a Santa Cecilia con Barenboim. Il Requiem di Verdi. La soave e sinestetica ineluttabilità
Il concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia del 24 giugno è stato dedicato alla magistrale Messa da Requiem di Giuseppe Verdi con l’Orchestra ed il Coro del Teatro alla Scala di Milano diretti da Daniel Barenboim.
Verdi compose la Messa da Requiem tra il 1869 e il 1874.
La prima idea nacque in lui da una reazione emotiva, alimentata dalle sue alte idealità artistiche e patriottiche, ovvero alla notizia della morte di Rossini, avvenuta a Parigi il 22 maggio 1868. Verdi allora pensò ad una Messa con i vari brani composti dai maggiori musicisti italiani dell’epoca, riservando per sé il Libera me Domine, per celebrare il grande artista italiano scomparso, e da eseguire nel 1° anniversario della morte.
Fallito il progetto per incomprensioni di varia natura, dopo cinque anni Verdi, di nuovo molto commosso per la morte di un altro grande artista italiano, Alessandro Manzoni, da lui immensamente stimato, decise di scrivere per intero una Messa da Requiem per onorarne la memoria, inserendovi il brano da lui già composto.
La prima esecuzione avvenne al primo anniversario della morte di Manzoni, a Milano, nella chiesa di S. Marco, il 22 maggio 1874, e fu diretta eccezionalmente da Verdi stesso, che assai di rado si esibiva come direttore.
L’opera, di altissimo valore, è una riflessione sulla morte, profondamente laica, intensa, piena di passioni drammatiche e grandiose (si è spesso accostato il Requiem verdiano alla “terribilità” michelangiolesca), ma anche di umanissima tenerezza e pacificante dolcezza.
L’esecuzione del M° Daniel Barenboim ha immediatamente coinvolto il pubblico per il dominio degli affetti tumultuosi, attuato con l’elegante padronanza degli aspetti strutturali e formali dell’opera. E’ stata data quindi piena resa interpretativa alla pessimistica meditazione di Verdi sul fine ultimo della vita, “annientante nulla del pensiero”: solo rimedio il perfetto equilibrio formale, generoso di supremi, dolcissimi conforti. Barenboim è riuscito a diventare una sola cosa con l’opera, a darle respiro vitale con la propria energia, senza alcuna narcisistica sovrapposizione.
Cosi’ totale era la simbiotica immedesimazione che il gesto direttoriale, efficacissimo, in qualche istante era del tutto assente, quasi inutile al naturale espandersi della musica, e per il resto era ampio, energico, incalzante, e per l’ascoltatore si verificava una straordinaria percezione sinestetica: guardando il direttore sembrava di veder disegnarsi un vortice, e simultaneamente se ne ascoltava la moltiplicazione sonora, di tale potente intensità da riempire l’intero universo.
Ammirevoli la discrezione e l’efficacia, col rifiuto di ogni cedimento all’esteriorità e alla commozione facile, nel far emergere con espansioni di voluttuoso abbandono i momenti patetici e di appassionata e confortante dolcezza. Era evidente la particolarità quasi biologica del Requiem verdiano: l’alternanza “polmonare” o, se si vuole, “cardiaca”, tra momenti di sconvolgente “terribilità” e momenti di struggente, consolatoria dolcezza, imbevuta di nostalgia per una pace mai raggiungibile, impossibile finché palpitano le passioni, ma desiderata come un pensiero che dà quiete. In tal senso, perfetta è stata la resa dei momenti nei quali, dopo la prima terrificante esplosione, il tema del Dies Irae si ripresenta nel corso dell’opera, per ben tre volte, quasi idea fissa, ossessionante riproposizione dell’amara ineluttabilità della fine, e, a lenire l’angoscioso vuoto, i soavissimi cantabili amorosi, sensuali, accoglienti: l’adagio Quid sum miser, affidato a mezzo soprano, tenore e soprano; il largo Lacrymosa, iniziato da mezzo soprano e basso, ai quali si aggiungono poi gli altri due solisti. La terza volta che si presenta, il terrificante Dies irae si placa in una specie di ripiegamento interiore, per trovar pace nel brano a cappella di soprano e coro Requiem aeternam.
Andando ai particolari, la gestione dell’Orchestra e del Coro della Scala, magnifici, era cosi sapiente ed interiorizzata che ogni sezione sembrava un solo individuo, un personaggio del dramma che si svolgeva. Anche i solisti hanno goduto della stessa cura elegante e sollecita, avvantaggiandosene in misura diversa. Di grande efficacia emotiva, nel finale di Rex tremendae majestatis, il Salva me del basso René Pape, grande artista: era un lievissimo alito sonoro perfettamente percepibile. Splendida Barbara Frittoli soprano. Sensibilissima artista, con voce un po’ delicata, Sonia Ganassi, mezzosoprano. Il tenore Giordani, dalla bella voce, si è molto avvantaggiato, quando era possibile, delle attente cure del direttore. Pubblico entusiasta.