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Sleeping Around. Il girotondo degli oggetti
Non sembra un film italiano, e non tanto per il titolo, Sleeping Around, che più o meno suona come “passare da un letto all'altro”, un hop on e hop off dalle superfici del materasso al posto di quelle a gradini dei bus che girano per Roma per gli stranieri. Il film di Marco Carniti sembra un film assolutamente senza menzogne, quelle che si raccontano per addolcire la “ginnastica” senza senso e sentimento di cui Galimberti tratta in “Le cose dell'amore” (ed. Feltrinelli Tascabili), e che in questa pellicola, diffusa da Distribuzione Indipendente, si scontrano con le discrasie dell'amore e dell'attrazione, in un Girotondo tratto da Schnitzler.
Se vi ricordate il libro di Schnitzler (del 1900), vi erano sei coppie, qui sono cinque, che si allacciavano l'una all'altra e quindi si passava, che sò, dal soldato alla prostituta, dal soldato alla cameriera e così via, in un intreccio di intercourse sessuali senza soluzione di continuità. Anche nel film di Carniti, del 2007, che ha ricevuto i contributi dallo Stato come opera di rilevanza culturale, si verifica lo stesso “trottolamento” da una relazione all'altra: mostrandoci come Dario Grandinetti, bravissimo nella parte del professore universitario opportunista e nichilista, accetta avances e sfrutta chiunque e, coerentemente con ciò che afferma in una frase lapidaria del film, si comporta: “Come si trattano i deboli? Con disprezzo.”
Regista di opere liriche e teatrali in tutto il mondo (ora è impegnato in una produzione da Mozart a Bilbado, poi sarà a Barcellona per La clemenza di Tito e così via), Carniti ha un senso perfetto per la musica ed il ritmo delle scene: tutto è ben calibrato e, nonostante quel che si vede è un cinema “sporco”, che tira fuori il fango e ce lo mostra così com'è, proprio per non farlo cementificare, tutto scorre senza frizioni, soprattutto, quello che vediamo è, finalmente, uno sguardo sincero sulla realtà amorosa, condito alla fine di un futuro prospettico possibile.
Il “non-luogo” dove si svolgono tutte le scene è la grande campana esoterica di Torino, dove risuonano le avventure come sospese nel tempo e nello spazio, quasi non identificabili in un luogo circoscritto geograficamente. Le scenografie di Emita Frigato non stringono mai lo spettatore in una stanza che sia solo un perimetro chiuso, bensì sempre aperto, come la barca sul fiume dove vive il professore Marcello; oppure la casa di Danilo Nigrelli (Giovanni); od ancora, il giardino e poi l'interno del casolare (forse) dove Marco Foschi (Paolo) e Francesca Faiella (Beatrice) stemperano il loro amore conflitto in uno dei malanni – quasi senza uscita – provocati da questo “saltellare” continuo tra coltri sconosciute che andrebbero maggiormente temute.
Kierkegaard asseriva che “La paura è proporzionale al desiderio”: per cui, ciò di cui non si ha paura non lo si desidera, e quindi non lo si immagina, e ciò che connette due persone – non necessariamente nello stesso letto – è la capacità di immaginare un futuro, qualcosa aldilà del nostro orizzonte. Questo mi fa pensare al film di Bertolucci, a The Dreamers (2004), che incappava nelle stesse maglie d'acciaio: facendo sembrare vicino ciò che non lo è affatto, perché l'oggetto, non mutato in soggetto, rimane distante e pernicioso.