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12 anni schiavo. Il cuore di tenebra dell'America
Uno degli orrori che macchiano la Storia americana, dopo quasi un secolo di silenzio e di omertà, è entrato fra temi protagonisti della cinematografia statunitense degli ultimi anni. E questo grazie soprattutto alla svolta impressa da Obama. Parliamo ovviamente dello schiavismo, raccontato nella sua accezione più disumana e violenta nel film 12 anni schiavo, diretto dal britannico Steve McQueen, che uscirà nelle sale italiane il 20 febbraio. Prodotto da Brad Pitt e favorito nella corsa agli Academy Award 2014 con ben 9 candidature, è un film che punta con la forza della rappresentazione a sconvolgere lo spettatore. E ci riesce, dimenticando però di astrarre in metafora la potenza del racconto.
La sceneggiatura, scritta da John Ridley, è tratta dall'omonima autobiografia di Solomon Northup, e racconta la drammatica vicenda di un uomo nato libero e trasformato in schiavo per 12 anni. Violinista, padre di famiglia, Solomon (Chiwetel Ejiofor) viene rapito durante una tournée a Washington e trasportato in catene nel cuore dell'America sudista. Qui, smette di essere trattato come un uomo e diventa una proprietà, acquistabile come un animale. Passando da un padrone a un altro, viene sottoposto a indicibili torture fisiche e psichiche. Uno di essi, Edwin Epps (Michael Fassbender), un latifondista sadico e perverso, arriva spesso ad un passo dall'ucciderlo. Se non lo fa, è solo perché Solomon è una proprietà, e come tale ha un valore quantificabile in denaro: ammazzarlo sarebbe uno spreco. Destino analogo ma ancora più tragico tocca invece a un'altra schiava, Patsey (Lupita Nyong'o), stuprata dal padrone notte e giorno e martoriata dalla moglie gelosa e spietata (Sarah Paulson). A poco a poco, a suon di frustate, umiliazioni e privazioni di ogni tipo, il sapore della libertà viene quasi del tutto estirpato dall'animo di Solomon. Finché un giorno, l'arrivo di un bianco antischiavista (Brad Pitt), gli offrirà una chance di riprendersi la sua libertà.
Fin dalle prime scene, 12 anni schiavo ha nell'intensa complessità delle inquadrature e nella massiccia presenza scenica degli interpreti le sue doti più perturbanti ed espressive. Ogni immagine ha un particolare peso specifico dato da un profondo senso di imminenza della morte. Come era sia in Hunger (2008) che in Shame (2011), le agonie fisiche dei personaggi sono riprodotte con tale efficacia registica da McQueen da provocare quasi dolore fisico nello spettatore. Ma non solo. È l'angoscia interiore quella che viene meglio rappresentata. Come un'ombra densa, quasi materica, gli schiavi si trascinano dietro il peso dell'ineluttabilità. Come nella straordinaria scena del risveglio di Solomon in catene o in quella della lenta, agonizzante tortura con il cappio al collo e le punte dei piedi a terra. Scene necessarie per la rappresentazione dell'orrore, così come necessario è il film per il racconto, per decenni rimosso dalla memoria collettiva, del cuore di tenebra degli Stati Uniti d'America.
Tuttavia si avverte costantemente la mancanza di una lettura che vada oltre questo ammirevole ma semplicistico intento. Niente viene detto, ad esempio, sulle cause socio-economiche, oltre che politiche, che portarono alla nascita e allo sviluppo dello schiavismo. Quello che vediamo rappresentato è solo lo stadio più violento e bestiale del razzismo radicato nella civiltà americana di quell'epoca. Ma soprattutto manca un sottotesto degno della forza del testo. È come se l'estremo realismo del racconto ne soffocasse in parte il respiro simbolico, a causa soprattutto di una sceneggiatura magniloquente (“Io non voglio sopravvivere. Voglio vivere”) e didascalica. E non basta il tema della scrittura come strumento di libertà e di salvezza. E nemmeno il tentativo di una rielaborazione in chiave post-schiavista del quesito di Hans Jonas sul concetto di Dio dopo Auschwitz. Occorreva osare uno sguardo che abbracciasse, in un'unica grande riflessione, le ferite di allora e quelle di oggi.