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Alfred Brendel. Lezioni di umorismo musicale
Domenica 27 febbraio 2011 il ciclo delle Lezioni di Musica, promosse dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con Musica per Roma e l’Associazione Amici di Santa Cecilia, a cura di Giovanni Bietti, ha visto salire sul podio Alfred Brendel. L’ottantenne pianista austriaco, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium del Parco della Musica di Roma, ha tenuto una conferenza, intervallata da una serie di esecuzioni dal vivo al pianoforte, sul tema Il Sublime a rovescio: può la musica seria essere comica?
Brendel ha esordito ricordandoci che per molti esecutori la musica è qualcosa di assolutamente serio: opinione condivisa peraltro dalla gran parte degli ascoltatori di musica colta. Sembra quasi che sussista un contrasto tra gli interpreti di musica comica, che non deve ispirare in modo sublime né prendersi troppo seriamente, e gli interpreti del resto della musica. In realtà, sostiene Brendel che vale piuttosto il contrario: «La musica comica può essere rovinata, e perdere completamente di significato, se la si esegue ’seriamente’».
Il titolo della conferenza, pronunciata in buon inglese, con accento marcatamente austriaco, è di per sé stesso indicativo. Il sintagma “sublime a rovescio” (das umgekehrte Erhabene) - ci ricorda Brendel - fu coniato dal poeta romantico tedesco Jean Paul Richter (come aveva a suo tempo osservato anche Luigi Pirandello nel suo saggio L’umorismo del 1908, dove definisce l’umorismo “il sentimento del contrario”), per designare l’umorismo, ossia, la «malinconia di un animo superiore che giunge a divertirsi finanche di ciò che lo rattrista»; esso «non annienta il singolo, bensì il finito attraverso il contrasto con l’ideale». Ecco perché riuscire a suonare un brano in modo realmente umoristico, per Brendel, è un dono speciale, che dipende dalla comprensione dell’interprete «molto più di un notturno o di una marcia funebre».
Nel corso della conferenza Brendel ha alternato una serie di considerazioni storico-filosofiche sul concetto di umorismo, proponendone alcune definizioni tratte da vari filosofi e e scrittori, con alcuni esempi musicali, soprattutto di due grandi compositori, ossia Franz Josef Haydn e Ludwig van Beethoven.
Il suo punto di partenza è il modo in cui molti musicisti hanno saputo infondere la qualità dell’umorismo al proprio stile compositivo, attivando nell’ascoltatore l’effetto del riso. Il problema fondamentale con cui in realtà bisogna confrontarsi è come sia possibile in un brano di musica strumentale, tanto più se si tratta di “musica assoluta” nel senso di Richard Wagner, ossia musica esclusivamente strumentale e sganciata dalle parole, provocare nell’ascoltatore una reazione simile a quando assiste a una scena comica. Bisogna quindi individuare le caratteristiche tecniche dell’umorismo in musica, ad es. capire fino a che punto sia lecito usare questa categoria in presenza di brani strumentali designati con il termine “scherzo”. Mentre appare più ovvio ravvisare elementi umoristici nell’opera comica, come in Gioachino Rossini, dove alcuni brani fanno ridere già dal titolo, o in certa musica a programma, come in Erik Satie.
La centralità di Haydn (di cui ha eseguito una parte del terzo movimento dalla sonata n. 50 in re maggiore) viene da lui così spiegata: «Ritengo che uno dei massimi umoristi in musica, e per troppo tempo uno dei compositori più incompresi, sia Franz Josef Haydn. La ricchezza e la varietà di effetti comici nella sua musica strumentale sono uniche in tutto il Settecento».
Per quanto riguarda Beethoven, Brendel ha passato in rassegna quello che ha definito «uno dei massimi capolavori di tutti i tempi, osservato dal punto di vista della 'satira umoristica'», ossia le 33 Variazioni Diabelli op. 120 per pianoforte interpretate come «una suprema esplorazione di tutte le risorse umoristiche»: in quest’opera troviamo «alcune variazioni sublimi intercalate per contrasto, e una sublime conclusione». Di Beethoven ha altresì eseguito la cadenza del 1° concerto per pianoforte e orchestra, in do maggiore, op. 15 (sottolineando come in certi momenti il tempo sembrasse arrestarsi, «Time stands still») e il secondo tempo della sonata per piano n. 31 in la bemolle maggiore op. 110.
Molto abilmente Brendel compie un’operazione di destrutturazione dei celebri brani classici, spiegando accuratamente come la tonalità, il tempo e le variazioni possano produrre effetti comici e perfino parodie che spesso contraddicono le aspettative dell’ascoltatore che nella loro incongruenza è indotto a ravvisare un effetto comico.
Per quanto riguarda gli autori letterari e i filosofi presi in esame, si è partiti da Platone (che voleva mettere al bando il riso). Brendel ha poi citato alcuni esponenti dell’illuminismo scozzese (come Francis Hutcheson, per il quale nulla si adatta alla falsa grandezza quanto il ridicolo) e di quello francese, come Denis Diderot, che sosteneva che i grandi artisti sono come criminali, perché distruggono le regole.
Ha poi richiamato il poeta e filosofo tedesco Friedrich Schiller, convinto che lo scrittore comico debba divertire la ragione, e il filosofo Arthur Schopenhauer, che invece riteneva che nel riso la ragione fosse condannata all’inadeguatezza.
Non è mancata una menzione di quel grande classico contemporaneo che è Il nome della rosa di Umberto Eco. Nel dialogo tra il protagonista, Guglielmo da Baskerville, e il suo antagonista, il monaco Jorge da Burgos, Eco mette in bocca al primo una frase di Plinio il giovane: «aliquando praeterea rideo, jocor, ludo, homo sum» (talora inoltre rido, scherzo, gioco, sono uomo). Ed uno dei temi portanti del romanzo è proprio il ruolo della comicità che, attraverso il secondo libro della Poetica di Aristotele, avrebbe potuto mettere in discussione le verità della tradizione, dogmaticamente difese da Jorge.
Brendel ha aggiunto alcune annotazioni semantiche su alcuni termini inglesi (come funny, che vuol dire insieme comico, strano e singolare) e tedeschi (Laune, che vuol dire buon umore, accostabile all’inglese humour, come avevano osservato Gotthold Ephraim Lessing e Immanuel Kant). Degno di menzione è stato anche un motto ebraico, secondo il quale «l’uomo pensa, Dio ride».
Nelle conclusioni Brendel polemizza ironicamente con la rigidità e la seriosità, quasi ieratiche, dell’ambiente della musica colta, che sembrano contrastare qualsiasi verve umoristica.