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Atom Heart Mother risorge a Roma con gli Acoustic Floyd
Il 24 febbraio 2012 sono tornati a esibirsi al live club Crossroads di Roma gli Acoustic Floyd, una delle cover band più interessanti e originali tra le numerose formazioni nate con l’intento di reinterpretare in modo più o meno filologicamente corretto i brani del leggendario quartetto di Cambridge, fondato da Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright e Nick Mason, a cui si aggiunse in seguito David Gilmour.
Gli Acoustic Floyd hanno in quest’occasione mostrato di possedere una notevole maturità: il loro leader, Maurizio Loffredo, ha dimostrato di saper ben tenere il palco, riuscendo a reggere un concerto di oltre due ore e coordinando i musicisti in una doppia impresa: rileggere in chiave semi-acustica alcuni dei più celebri brani dei Pink Floyd, conferendo loro un flavour quasi post rock; e reinterpretare, con l’ausilio di un coro e di una miniorchestra classica, quella che forse è il più celebre esempio di fusione tra le sonorità rock e il sinfonismo tonale del Novecento, ossia la suite Atom Heart Mother.
La prima parte del concerto comincia sulla falsariga di quello precedente a cui abbiamo assistito il 4 dicembre 2010: si tratta delle parti I-V di “Shine on You Crazy Diamond”: questa volta notiamo una maggiore presenza del violoncello, suonato con consumata maestria da Rossella Zampiron, che dialoga così efficacemente con il contrabbasso elettrico di Maurizio Meo – suonato a mo’ di Chapman Stick - da non far rimpiangere l’uso sapiente dei sintetizzatori del brano originale. Anche il canto appare più sciolto e meno trattenuto che in passato, con i vari membri del gruppo a supportare Loffredo. Il sax tenore di Enrico Furzi conclude in modo languido e deciso a un tempo la quinta parte del brano dedicato alla memoria eterna del “diamante pazzo”, ossia il musicista cantabrigense Roger Keith “Syd” Barrett.
Lo stesso sax stralunato, accompagnato dal violoncello e da un contrabbasso e una chitarra elettrica tiratissimi, introduce una versione particolarmente frenetica di “Astronomy Domine” (simile per certi versi alla cover della band heavy-metal dei Voivod), dal primo periodo lisergico dei Pink Floyd: è un brano contenuto nell’album d’esordio The Piper at the Gates of Dawn, ispirato alla suite The Planets di Gustav Holst (poi ripreso nella parte dal vivo del doppio disco Ummagumma): si tratta di un pezzo con una struttura armonica inconsueta, in cui vengono legati insieme esclusivamente accordi di tonalità maggiore, che scandiscono il testo ricco di riferimenti astrali, con pianeti e satelliti variamente citati, come nei seguenti versi: Jupiter and Saturn / Oberon, Miranda and Titania / Neptune, Titan, Stars can frighten.
Puramente unplugged appare la successiva “Mother”, cantata con particolare pathos dalla tastierista, Nicoletta Nardi, sul tessuto melodico delicatissimo del violoncello: la memoria corre immancabilmente a un’altra interpretazione femminile, quella di Sinead O’Connor, nel memorabile e leggendario concerto organizzato da Roger Waters il 21 luglio del 1990 a Berlino dopo la caduta del famigerato Muro (Waters aveva detto che non avrebbe mai più suonato dal vivo The Wall, a meno che non fosse caduto il Muro di Berlino…).
Pochi tocchi di sintetizzatore, suonato con particolare perizia da Duilio Galioto, introducono “Echoes”, la lunga suite che occupava in origine un’intera facciata di Meddle, disco del 1971. Il violoncello la sigla con inconsueta efficacia, mentre nella parte ritmica, qui eseguita solo parzialmente, il contrabbasso elettrico si trasforma in uno strumento più funky, con chiare reminiscenze dal free jazz. La suite si conclude con il violoncello di nuovo in primo piano e con il coro finale per 20 secondi a cappella sui versi "And no-one sings me lullabies/And no-one makes me close my eyes/And so I throw the windows wide/And call to you across the sky" (E nessuno mi canta ninne nanne / E nessuno mi fa chiudere gli occhi / E così spalanco totalmente le finestre / E ti chiamo attraverso il cielo).
Da una “Wish You Were Here” più classica che mai, con un set molto acustico, si passa a “Comfortably Numb”, con una straziante introduzione di violoncello e la voce femminile che si staglia al di sopra degli strumenti, dando al brano un tono vibrante e appassionato.
Una “Money” molto elettrica e funky dà modo ai musicisti di mostrare il loro talento e il loro notevole affiatamento strumentale. Segue poi un brano dal repertorio più recente dei Pink Floyd, l’epica “High Hopes”, dove gli assoli di violoncello vengono sigillati dal coro finale di dodici voci.
“Welcome to the Machine”, il brano successivo, qui viene eseguita in modo sobrio e scarno, con le sonorità originali interpretate con una certa ritratta compostezza, che cionondimeno conferisce al brano una sinistra e austera solennità.
È poi la volta di “Breathe”, con una sorpresa preannunciata: il brano viene cantato da un ospite speciale, il cantautore italiano Max Gazzè, che suona anche il basso, mentre Loffredo lo accompagna con quel mirabile strumento che è la steel guitar.
Rintocchi quasi di Glockenspiel introducono “Us and Them”, con la voce di Max Gazzè anche in questo caso a rendere in modo meno nevrotico i versi “pacifisti” di Waters: "God only knows it's not what we would choose to do/Forward he cried from the rear/And the front rank died/and the General sat, and the lines on the map/Moved from side to side" (Dio solo sa che non è ciò che avremmo scelto di fare/Avanti, gridò, da là dietro/E la prima fila morì/E il generale sedeva, e le linee sulla mappa/Si muovevano da una parte all'altra).
Cupi rintocchi e tonfi della batteria introducono poi “Shine on You Crazy Diamond”, part VI & VII, un po’ stravolta e interpretata con lo stesso spirito meditativo delle prime parti eseguite all’inizio del concerto, e con qualche richiamo (così ci è parso di intendere) ad "Octavarium" dei Dream Theater, che del lungo brano pinkfloydiano è palesemente debitrice.
A questo punto, i musicisti scendono dal palco, mentre sale l’attore Riccardo Mei, che con voce profonda ed espressiva traccia la storia della suite “Atom Heart Mother”, sottolineando la collaborazione dei Pink Floyd con il musicista Ron Geesin, la mancata collaborazione con il regista Stanley Kubrick e la genesi della celebre copertina con la mucca.
Passano pochi minuti e la band riguadagna il palco, accompagnata dall’orchestra, appassionatamente diretta da Giovanni Cernicchiaro, giovane compositore e fondatore di Arsnovaemusicae: non appena sulla platea cala il silenzio, gli ottoni introducono le inconfondibili note iniziali della suite, mentre sullo schermo vengono proiettati effetti speciali per tutti i 25 minuti di durata del brano.
"Atom Heart Mother" è strutturata come una sinfonia rock in mi minore (sull’argomento ci rifacciamo al giornalista e critico musicale tedesco Raoul Hoffmann, che ne offre un’attenta analisi da noi stessi tradotta e adattata per la versione italiana di wikipedia), composta da sei movimenti collegati senza soluzione di continuità e costruiti in modo ciclico: alla fine di ognuno di essi si viene riportati al punto iniziale.
La prima parte è formata da tre temi ("Father’s Shout", "Breast Milky" e "Mother Fore"), configurati come una passacaglia, in cui la base armonica si ripete secondo una sorta di modo "ostinato". Il primo complesso di temi richiama esperienze di musica classica del Novecento (da Stravinskij a Mahler), circostanza sottolineata dall’intonazione dei fiati, dal fraseggio del violoncello e dal coro. A questi temi in mi minore fa poi riscontro la parte in sol maggiore, con accordi scanditi sullo stesso intervallo di terza, particolarmente nella sezione denominata "Funky Dung".
Il contrasto tonale si sviluppa lentamente fino ad assumere connotazioni decisamente rock, con una serie di improvvisazioni che gli Acoustic Floyd rendono con un alto artigianato, fedele il più possibile all’originale. Nella seconda parte della suite, i suoni elettronici si sintetizzano mirabilmente con i temi in mi minore della prima parte. Nella terza e conclusiva parte, dopo una coda che devia verso motivi atonali, tutti i temi delle due parti precedenti vengono fatti confluire in una melodia in mi maggiore in cui il coro assume una particolare e solenne posizione.
Il pubblico applaude con una standing ovation talmente convinta e partecipata da indurre il gruppo a concedere ben due bis: prima la intensissima “If”, cantata da Max Gazzè con voce vellutata, lontana però da quella curvatura uncanny che le impresse Roger Waters, quasi a precorrere il folk apocalittico dei Current 93 di David Tibet. E poi l’ultima parte di A Saucerful of Secrets, intitolata “Celestial Voices”, dove il coro fa del suo meglio per rendere quella wordless voice interpretata dal solo David Gilmour nel mitico Live at Pompeii nel settembre del 1971 e da un intero coro il 26 giugno del 1969 alla Royal Albert Hall di Londra.
In conclusione, abbiamo assistito senza dubbio a un concerto ambizioso, dove le risorse messe in campo sono riuscite a riprodurre con rispetto e cura filologica, ma senza inutili timori reverenziali, uno dei lasciti probabilmente più duraturi della musica progressive del Novecento.