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Carte rivelatrici. A Lucca i tesori nascosti della Collezione Guggenheim
Nelle opere esposte si può rivivere la vita di Peggy, che era animata da sensazioni profonde e viscerali verso tutto ciò che riguardava l’arte: non solo l’opera finale, ma anche e soprattutto la forza creatrice che trovava in essa una manifestazione materiale; era questa di cui lei si invaghiva e (letteralmente) innamorava di volta in volta, spingendola ad amare con tutta se stessa ben più di un artista della sua collezione.
I pezzi esposti nella mostra sono ciascuno un pezzo della storia di Peggy, e tutti di alto livello artistico ed espressivo. Si va da un Alechinsky (Vestaglia, 1972) che irradia luce propria, con i colori di una brillantezza viva che nessun catalogo potrà mai restituire (e la forza dell’opera si estrinseca in questo dettaglio, non nella valenza estetica in sé) a un semplicissimo pezzo di Jean Arp, in cui alcune figure morbide a matita si compongono a formare un armonico insieme che si innesta su un piccolo foglio di carta.
Arp, che faceva parte del nucleo primitivo dei dadaisti di Zurigo, ebbe la sua prima mostra americana delle sue sculture proprio nella galleria Art of This Century, che Peggy aprì nella 57° Strada a New York nel 1942. Tra l’altro, la prima opera della collezione Peggy fu proprio una scultura di Arp.
Ma prima di Art of This Century, che come si capisce dal nome era improntata alla divulgazione dei lavori di artisti contemporanei, Peggy aveva già aperto una galleria a Londra, la Guggenheim Jeune, sotto la supervisione di un altro grandissimo dadaista: Marcel Duchamp, che le avrebbe presentato moltissimi nomi memorabili, come lo stesso Arp, Jean Cocteau e Vasily Kandinsky.
Di quest’ultimo la mostra ospita un pezzo bellissimo del ’29, un olio su cartone intitolato Empor (“verso l’alto”), che vive e respira nella geometricità delle sue forme sospese tra le nubi di un cielo ceruleo, come una pianta deposta in un angolo del museo.
Praticamente tutti gli artisti raffigurati (forse con eccezioni di cui non sono erudito) sono stati incontrati e conosciuti dalla collezionista, nella sua sete di comprendere davvero ciò che muoveva gli artisti del suo tempo. Data poi la sua personalità, i risultati potevano essere sorprendenti, inaspettati. Come quando, a Parigi sulla Tour Eiffel, Laurence Vail le chiederà di sposarlo e lei accetterà senza pensarci troppo, sull’onda della sensazione di quel momento.
Il legame con Vail porterà due figli ma non sarà duraturo. Nella mostra abbiamo un paravento che l’artista scrittore Vail decorò con la tecnica del collage rendendolo un’opera splendida, dove tutti i pezzi, pur estremamente eterogenei (in forma e raffigurazione) raggiungono un’armonia d’insieme davvero mirabile.
Parlando ancora di collage e di mariti di Peggy, il pezzo che probabilmente è il più forte di tutta l’esposizione è un collage di Max Ernst, il postino Cheval. Di Ernst è esposta anche una versione piccola su carta dell’Antipapa, che regalò a Peggy quando la sposò.
Volendo andare verso l’astrattismo, abbiamo un Tobey vagamente pollockiano (Cammino della storia, con due macchie di colore rosso sparse che danno carattere a tutta l’opera), un Emilio Vedova (Città ostaggio, dove si vede davvero una metropoli di notte, scura e minacciosa nei suoi vicoli illuminati dai neon), due Tancredi senza titolo e un Sam Francis, anch’esso senza titolo, dagli squisiti e vivissimi contrasti cromatici tra macchie rosse, gialle e blu.
Abbiamo già parlato di Arp: ma la mostra esibisce anche altri dadaisti, come Raoul Hausmann con un acquarello del 1919 e Kurt Schwitters, con due piccoli e magnifici collage di carta (Disegno Merz 75 e Blu nel blu), estremamente rappresentativi dell’estetica e della personalità di questo atipico artista.
C’è anche Hans Richter con una delle teste dada (che ricorda un carattere cinese scritto alla maniera Zen) e due stupendi Rayograph di Man Ray, come sempre dalle vette espressive difficilmente eguagliabili.
Vi sono anche altri grandi nomi: Picasso, con due incisioni ad acquatinta del ’37 e un Busto di uomo del ‘39, Henry Moore, con due piccoli lavori del ’37 e Mondrian, con l’Oceano 5 (1941), Tanguy con una tempera del ’38.
Di lì a pochissimo sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale, e la preoccupazione principale di Peggy (che ai tempi della Guggenheim Jeune acquistava sempre almeno un’opera a ogni artista che esponeva, anche per non deluderli e supportarli economicamente) diverrà il riuscire a far rifugiare in America alcuni dei suoi amici artisti. A guerra ultimata si trasferirà a Venezia, città amata da sempre, ma la sua attività non subirà modifiche sostanziali.
Potrei andare avanti citando le altre opere esposte, ma ritengo che lo spirito della mostra sia ormai ben comprensibile: la vita e la passione di una donna che vanno al di là della sua stessa figura, investendo l’arte di tutto un secolo; e tutto questo con una gioia di vivere che travalica le quotidiane vicissitudini. Dolore, separazioni, felicità immense e cocenti delusioni: Peggy ha accolto ogni frammento della vita propria e di coloro le cui strade s’intrecciavano con la sua, vivendo sempre ogni istante fino in fondo, e mai pentendosene.
Un’ultima considerazione, sul mezzo artistico scelto per questa esposizione, la carta. A torto spesso considerata un materiale meno nobile della tela, la carta consente all’artista un’espressione più immediata, grazie all’assenza di preparazione necessaria, e alla semplicità con cui può essere impressa. E nella perenne ricerca dell’espressione perfetta dell’animo, questa minore barriera espressiva non può che giovare a moltissimi artisti che si sentono in risonanza con questo materiale.
Questa esposizione dimostra come i grandi nomi abbiano saputo trarre vantaggio da queste caratteristiche del materiale, e le opere in mostra ne sono prova incontrovertibile: vive, pulsanti e vere.