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Controverses. Storia ed etica della fotografia al Museo Alinari
Il Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Firenze) ospita fino al 5 Giugno 2011 un’interessante esposizione realizzata dal Musée de L’Elisée di Lausanne, che ripercorre la storia di quest’arte analizzando una serie di scatti che, alla loro pubblicazione o nel corso del tempo, hanno sollevato dibattiti e polemiche, andando a mettere in questione il significato stesso dell’arte e della pratica fotografica. La capacità della macchina fotografica di immortalare un momento di tempo, sottraendolo all’ineffabile fluire dell’eternità, la rende strumento sia dell’artista che dello storiografo, e potenzialmente strumento di verità.
Vedremo quanto quest’ultima affermazione possa essere opinabile, e l’esposizione, che giustamente s’intitola Controverses – Una storia giuridica ed etica della fotografia mette in discussione proprio questo: la storia della fotografia è anche una storia di falsi e di controversie. Non a caso la mostra si apre con il famoso autoritratto come un annegato di Hyppolyte Bayard, creato dall’autore in segno di protesta verso il governo che aveva favorito la scoperta del dagherrotipo di Louis Daguerre (Bayard fu il primo a ideare un procedimento di stampa positiva diretta, prima del 1840, rendendolo di fatto l’inventore della fotografia).
Moltissime di queste controversie si sono ricomposte soltanto in sede giudiziaria, ma anche in questo caso la storia non permane lineare. L’essenza stessa del mezzo fotografico ha posto, anche prima dalla sua diffusione in larga scala data da macchine e pellicole prodotte in serie, una lunga serie di implicazioni etiche e giuridiche prima sconosciute.
Si pensi ad esempio al concetto di privacy, al problema della percezione pubblica degli organismi di potere, e alla professione di paparazzo. Tutto questo è riassunto nella fotografia di Otto Von Bismarck sul suo letto di morte, letteralmente rubata da Max Priester e Willy Wilcke (si introdussero come ladri nella casa del Cancelliere, 30 Luglio 1898) che rappresenta uno dei primi casi di scoop e di fotografia sequestrata dalle autorità.
La rappresentazione del vecchio Bismarck impotente e sconfitto dalla malattia, così diversa dall’usuale rappresentazione autoritaria e inflessibile del conte, spinse la sua famiglia a denunciare immediatamente i fotografi. Come risultato, la fotografia incriminata vide la pubblica luce solo nel 1952. E gli autori si fecero alcuni mesi di carcere.
Il fatto è che la macchina fotografica non è un silenzioso testimone, come spesso siamo portati a credere, con l’idea che si ha del fotografo in disparte, che riprende il dipanarsi di un evento. La macchina fotografica si appropria del soggetto fotografato e pertanto, ricordando Guy Debord, può esercitare su di esso il potere derivante dal possesso dell’immagine (come ci suggerisce il curatore Daniel Girardin nell’introduzione alla mostra). Una fotografia può fingere, distorcere, fare assunzioni, gridare in faccia all’osservatore, suggerire domande difficili.
Pertanto, essa contribuisce a plasmare la percezione della società. Con la foto-manipolazione poi, le possibilità sono virtualmente infinite. Questo è sempre stato ben noto e sfruttato dagli organismi di controllo e di potere; largo spazio nell’esposizione è dato a fotografie riguardanti eventi bellici, in particolare gravitanti attorno alla II Guerra Mondiale.
Se ne possono citare molte: dalle prime istantanee dei campi di concentramento (pubblicate non immediatamente per motivi strategici), alla foto del presunto cadavere di Adolf Hitler, ritrovata nel bunker (un primo piano disteso con foro di proiettile in fronte) alla famosa fotografia della bandiera rossa sul Reichstag, scattata da Evgueni Khaldei quando le truppe dell’armata rossa conquistarono Berlino il 2 Maggio 1945, e che fu pubblicata ritoccata per eliminare un particolare che poteva suggerire atti di sciacallaggio da parte dei soldati sovietici (l’originale sarà reso pubblico solo dopo la caduta del Muro).
In questo modo la fotografia filtra le informazioni da rendere pubbliche e concentra l’opinione solo su determinati dettagli. Essa diviene specchio della società in quel momento, non solo per ciò che è direttamente stampato sulla carta, ma anche per le circostanze socio-politiche che hanno portato all’immagine in sé. Ad esempio, clamorosa l’eliminazione di Nikolai Iejov (capo della polizia segreta, la NKVD) dal fianco di Stalin, dopo che egli fu dimesso, torturato e fucilato su ordine del regime.
La fotografia che prima lo ritraeva a fianco del gerarca negli anni ‘30, in successive stampe degli anni ’40 ne è priva, e Iejov è scomparso, svanito nel nulla come un fantasma, proprio come è successo nella sua vita. Quale delle due versioni è reale?Tutte e due, nel momento in cui sono state pubblicate.
Alcune fotografie, d’altro canto, vengono pubblicate e poi censurate in un secondo tempo; altre sono visibili in alcuni paesi, mentre sono censurate in altri (anche geograficamente adiacenti).
Un esempio tipico del processo che porta a casi di quest’ultimo tipo è quello che vede la foto Virginal Love di Oliviero Toscani (il fotografo che ha realizzato fino al 2000 una lunga serie di eccellenti scatti per il marchio Benetton; ricordiamo la maglietta e i pantaloni mimetici vuoti e insanguinati (campagna contro la guerra), il tatuaggio ‘HIV positive’ e altre ugualmente forti e dirette), che raffigura un dolce bacetto di un prete ad una suora, e che in Italia è stata censurata a causa delle pressioni del Vaticano. Essa è pubblica in Inghilterra.
In realtà in casi come questo siamo spinti a interrogarci anche sulla definizione del concetto di “arte”, un po’ come per tutta l’arte dal 1920 in poi, in cui ricade quasi tutta la produzione fotografica. Ad esempio, uno dei concetti più attaccati dall’essenza stessa della tecnica fotografica è quello di copyright – la fotografia per definizione si appropria di qualcosa che non le appartiene, è infinitamente replicabile, è modificabile e alterabile a piacimento, ecc.
In mostra è esposto un ritratto del Conte di Cavour del 1850, opera di Léopold Ernest Mayer e Pierre Louis Pierson, che fu oggetto di giudizio in quanto copiato e ripubblicato con minime alterazioni, e in sede giudiziaria si dovette decidere se la fotografia (in assoluto) avesse o meno lo status di “arte”, per poter colpevolizzare la pubblicazione di “falsi”. In tale sede per la prima volta le fu riconosciuto tale status, ma le controversie certamente non si arrestarono allora.
Moltissime sono le conseguenze dell’applicazione del diritto d’autore alla fotografia; la più macroscopica è l’elevatissimo valore che hanno assunto da alcuni decenni a questa parte gli archivi fotografici. Volendo tacere riguardo a collezioni di immagini commerciali, come Getty e Corbis, il valore sull’effimero mercato dell’arte di stampe originali è salito a dismisura, rendendone la compravendita affare redditizio.
Addirittura il grande Henri Cartier-Bresson, padre putativo del fotogiornalismo, si adoperò per recuperare tutte le stampe inviate alle varie riviste per cui lavorò nei primi anni (all’epoca spedire le stampe originali era lo standard, essendo ancora lontana l’era della rete e della trasmissione fedele di immagini a distanza) e arrivò persino a sottoscrivere:
«Ho sempre firmato e dedicato le stampe di mie fotografie a coloro ai quali intendevo donarle; tutte le altre stampe che recano solamente timbri o etichette “Magnum Photos” o il mio nome “Henri Cartier-Bresson” sono di mia proprietà. Tutti coloro che detenessero queste stampe non potranno invocare la buona fede»
Nell’esposizione sono svariati gli esempi di truffe, contraffazioni e simili atti, perpetrati a danno di collezionisti o archivi: si va dalla vendita di stampe di opere di Man Ray date per originali ma in verità stampate su carta degli anni ’60 o ’90, alle opere di Lewis Hine, le cui stampe “fasulle” ormai non si contano.
Altri scatti hanno vicende più strane. Come gli scatti di nudo di Brooke Shields quando aveva 10 anni ad opera di Gary Gross, di cui il fotografo detiene tutti i diritti, ma che viene citato dalla modella anni dopo allorché ella decide che quelle foto sono dannose alla sua persona. Nonostante la vittoria della causa, il processo ridurrà Gross sul lastrico.
Oppure abbiamo la celeberrima foto di Aldo Moro in mano alle Brigate Rosse: il Corriere della Sera la pubblicò (Marzo 1978), decidendo sul dilemma del diritto d’informazione contro l’eventualità di fare il gioco dei terroristi. E non poteva poi certo mancare la foto di Buzz Aldrin sulla Luna, con la bandiera statunitense che garrisce nel vento dell’inesistente atmosfera lunare, che tante teorie avrebbe alimentato nel corso dei decenni.
È evidente come la percezione di un’immagine muti nel tempo e nello spazio: essa segue le metamorfosi della società in cui viene presentata, divenendo di volta in volta icona dei tempi, immagine scioccante, cartina tornasole del modo di pensare contemporaneo. La fotografia ha vissuto da sempre queste problematiche su di sé, con il suo inalienabile spirito documentativo.
Molte di esse non sono ad oggi ancora risolte: nell’esposizione si parla anche di “diritto d’ispirazione”, e si cita l’esempio di un video di Madonna che riproduce con il suo corsetto una celebre fotografia di Horst P. Horst.
Quindi, alla fine, cos’è vero, cos’è falso? Qual è il confine tra espressione e immoralità? Qual è la linea che separa l’individualità dal controllo e dalla società collettiva?
Una fotografia non può essere creduta di per sé. Deve passare attraverso un’interpretazione; deve essere valutata attraverso i canoni della propria sensibilità, del proprio contesto esistenziale. Un iPhone non cattura la realtà, solo un punto di vista: in fin dei conti le fotografie si facevano riflettendo la luce su uno specchio, e guardando nello specchio ciascuno non vede che se stesso.