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Current 93 a Roma per il PRE Final Fest. Un concerto apocalittico con toni gnostici
L’atto finale del PRE Final Fest, svoltosi in una due giorni romana, il 17 e 18 Ottobre 2009, ha coinciso con la seconda performance italiana che quest’anno, dopo quella di Torino del 20 settembre scorso, ha visto sulla scena i Current 93.
Preceduto da un soundcheck con cupe e incalzanti chitarre e da un video che suggella idealmente il PRE Final Fest, verso mezzanotte e mezzo comincia l’attesissimo concerto dell’ormai mitico gruppo dell’underground britannico.Gli effetti speciali sono ridotti al minimo: un po’ di fumo rosso a tingere di cremisi e scarlatto la notte, ed ecco Baby Dee che si accomoda al piano elettrico, emettendo le prime note.
Entra subito dopo in scena il grande cerimoniere, David Tibet (voce), con giacca chiara e cappello stile borsalino, scalzo. Si toglie il cappello dopo il primo brano, dimenandosi quasi trascinato da una “divina mania” (la stessa di cui parla Platone nel Fedro), e comincia la performance scandendo le parole in un misto di canto e di recitativo.
Al di là delle definizioni consuete che incasellano i Current 93 nel cosiddetto folk apocalittico, ci si può chiedere se essa non sia definibile piuttosto come una band neoprog. La risposta per molti versi non può che essere positiva, anche perché il “dittico” costituito dall’EP Birth Canal Blues e dal full-lenght Aleph at Hallucinatory Mountain forma un vero concept album, modalità espressiva consacrata tipicamente da questo genere di band. E come i gruppi progressive d’antan, Tibet e soci non hanno voluto esibirsi in una performance che mescolasse i nuovi brani con i vecchi successi.
Con spietata e consequenziale coerenza, hanno suonato una sorta di lunga suite, dove anche i pochi brani non tratti dai due dischi citati si inserivano in una perfetta logica, quella della traduzione in musica delle più svariate eresie “cristologiche” dell’antichità: in particolare le eresie docetiste, patripassassiane e gnostiche.
Colpisce nel primo brano eseguito, Invocation Of Almost, una dimensione sacrale e ieratica, quasi da rito religioso, appena attenuata dall’uso delle chitarre in stile doom metal. Dimensione che continua anche nei successivi brani: in particolare, Not Because The Fox Barks diventa quasi un sabba mistico, con la tensione che sale sempre più in alto. Le chitarre di James Blackshaw e Keith Wood fanno un lavoro superbo, la tastiera diventa quasi ritmica. Così anche Urshadow viene cesellata dalle chitarre quasi acustiche, ma risuona non meno intensa degli altri pezzi, e meno “quieta” che nel disco.
Black Ships Ate The Sky, dal disco omonimo, appare invece ritmata, quasi da danza, molto elettrica, con Tibet che ricorda sinistramente Jim Morrison. L’analogia con il cantante dei Doors (e anche con lo Ian Gillan dei Deep Purple in Child in Time o con il Peter Hammill dei Van Der Graaf Generator in Darkness 11/11) appare ancora più evidente nell’ultimo brano prima del bis, ossia Niemandswasser, potente e incalzante, che si trasforma in una vera ascesi agli inferi. Ispirata com’è da un racconto dello scrittore “gotico” Robert Aickman (di recente riscoperto anche da una personalità altrettanto magnetica, Robert Fripp, leggendario fondatore dei King Crimson), con immagini visionarie e deliranti: cadaveri ammucchiati quasi a raggiungere il cielo, cottages coperti di caprifoglio, sentieri di tafani urlanti, libri di religione che sommergono i piedi. E in conclusione, we are all dust, “siamo tutti polvere”, scandito da Tibet con voce sinistra e raggelante.
Basti qui per il concerto di Roma, anche perché ha ripreso per molti versi quello di Torino, già recensito su Gothic Network. Nel seguito ci concentreremo sostanzialmente su alcuni aspetti contenutistici, partendo dai testi delle songs proposte, che non solo sono poeticamente connotati, ma anche innervati da un’incredibile erudizione di stampo teologico, in particolare per ciò che concerne le eresie incentrate sulla figura di Cristo.
Come lo stesso Tibet ha osservato in un’intervista, il suo interesse per le eresie dipende dal fatto che egli vuole indagare la distinzione tra che cosa significa essere reale e credere di esserlo. In questo contesto si inserisce l’idea della natura docetica di Cristo, riflessa nei brani On Docetic Mountain e I Looked To The Southside of Door: il docetismo (dal greco δοκέω, sembrare, apparire) è una dottrina “eretica” dei primi secoli del cristianesimo, incentrata sulla tesi per cui l'umanità di Gesù fosse fittizia e non reale. Quasi nietzschianamente, prima di discutere di quante facce possediamo, forse dovremmo pensare a quante maschere possediamo.
Aleph at Hallucinatory Mountain affronta appunto il tema del rapporto tra maschera (l’apparire) e realtà: alcune maschere sono così aderenti al nostro viso che pensiamo che siano vere (così si può interpretare ad esempio l’oscuro verso “And the women’s faces are full of stars and mischief”). Queste tematiche sono però associate al tema, a dire il vero declinato in modo un po’ ossessivo, del mistero di Cristo: in particolare viene discusso il problema della coesistenza ab aeterno del padre e del figlio. Come una delle più famose sette di eretici, gli ariani, aveva sottolineato, “c'è stato un tempo in cui non Cristo non era coesistente con il padre”. Un altro problema ad esso connesso era relativo a chi morì effettivamente sulla croce: una delle soluzioni, avanzate dall’eresia patripassiana, consisteva nel ritenere il Figlio solo un “modo” apparente scelto dal Padre per manifestarsi agli uomini. Fu in realtà il Padre ad incarnarsi, a soffrire e patire la Passione. E sull’argomento i Current 93 scrissero una splendida song interpretata da Nick Cave con varie citazioni dal filosofo Blaise Pascal, Patripassian, contenuta in All the Pretty Little Horses.
Nella traccia di apertura del concerto, Invocation of Almost, i primi versi ci ricordano oscuramente che “quasi all’inizio vi era l’assassino”, chiara allusione a Caino, ma forse anche al tradimento di Giuda (Almost in the beginning was the murderer): testi scritti in lingua copta, come il Vangelo apocrifo di Tommaso, e altri vangeli gnostici vengono rievocati per configurare la rappresentazione dell’origine dell’universo. Aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico (che, ricordiamo, ha dato anche il titolo a uno dei più celebri racconti di Jorge Luis Borges, che forse indirettamente ha ispirato Tibet, il quale ci ha confessato di averne solo una vaga reminiscenza), diventa non solo la figura di Cristo, ma anche il simbolo dell’inizio di tutti i tempi e di tutti gli spazi: come dice lo scrittore argentino nel suo racconto sovracitato e contenuto nella raccolta omonima El Aleph, 1952: “uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”.