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Editoriale. La mappa della problematica
Non so quante volte ho dovuto ricominciare a scrivere questo articolo, e probabilmente continuerò a riscriverlo dentro la mia mente, perchè la scomparsa, mai termine fu scelto in modo piu' appropriato, di Ezio Bosso è concretamente legata ai tre mesi di “reclusione” del mondo (quasi) intero e della mia patria.
Ezio Bosso viveva per il pubblico, era l'immagine della vitalità connessa all'operare sociale: una voce unica nel panorama musicale, che si nutriva della costante relazione umana e spirituale, nonché fisica, con gli altri esseri umani, tutti coloro che lo circondavano ai concerti come musicisti, ed il “suo” pubblico, un plesso che si muoveva ai suoi ritmi cadenzati da un solo verbo, l'emozione.
Uno dei suoi album notevoli è stato The 12th Room, la dodicesima stanza, percorso tibetano per lui ma che a me ricorda quello del Principe Prospero nel racconto di Poe La maschera della morte rossa: ecco, io dico che, nonostante la sua malattia fosse temibile, lui non avrebbe incontrato il lungo e alto orologio d'ebano dell'ultima stanza, senza il suo pubblico. O non lo avrebbe incontrato così presto, a 48 anni, perchè la vitalità di Bosso era in connubio sincronico con le persone e senza di esse non sarebbe sopravvissuto.
Dentro di me si muovono ferventi due forti sentimenti: l'uno è la compassione, e l'altro è l'ira, quel fuoco che divora e vorrebbe lanciare fiamme di drago verso coloro che hanno deciso per una “chiusura reclusiva” totale “sospendendo la Costituzione” e tutte le libertà inalienabili dei cittadini italiani, in deroga al Parlamento e sulla base di notizie incerte di scienziati che dieci anni fa per epidemie molto simili di SARS e MERS, sempre dei coronavirus per cui non si è mai trovato un vaccino perchè mutanti, non si è mai pensato ad attuare una “reclusione di massa” come quella attuata dai paesi occidentali e da alcuni paesi asiatici come la Cina, a queste sono seguite molte altre in tutto il mondo, tranne la Svezia in Europa; in Asia la Corea del Sud, il Giappone, l'Indonesia, Taiwan (i primi due con sistemi di controllo e tracciamento massivi) il Turkmenistan, Tajikistan, Belarus, Nicaragua, Tanzania.
Questa “reclusione” per gli esseri umani, ed il blocco delle attività produttive – solo quelle necessarie ai bisogni sanitari, di cibo e di bevande non si sono fermate - ha afflitto soprattutto, e aggravato, chi altre malattie già le aveva; ha peggiorato le condizioni di vita e di salute dal punto di vista spirituale e psichico, nonché fisico, di chiunque; ha fatto vivere nel terrore malsano delle forze di polizia, del Governo stesso, come se rappresentasse sé stesso e non noi cittadini. Un Governo deciso a tavolino tra le forze di maggioranza in un rimpasto tipico italiano, che non si è sognato nemmeno una volta di interpellare i suoi cittadini, decidendo per una “reclusione massiva” (non ho intenzione di fare il gioco del Governo, che ha scelto la parola inglese “lockdown” per decorarla con una finta eleganza che non ha di certo nella lingua d'origine, né per significato né per l'etimo in sé) decisa sulla base di informazioni, ripeto, incerte e tuttora discutibili, di medici e scienziati, che in primo luogo hanno seguito l'esempio delle misure di chi il virus lo ha diffuso, la Cina, regime totalitario che ha soggiogato la popolazione con un controllo massivo ed una quarantena disumana. Voglio di nuovo ricordare che gli unici dati “certi” sulla letalità del virus provengono dai dati giapponesi rilevati sulla nave Diamond Princess, organismo chiuso e sotto controllo, con indice di letalità 0,6%.
L'ultimo studio di Nature a firma Smriti Mallapaty, che cita lo studio dell'epidemiologo Timothy Russell, svolto alla London School of Hygiene and Tropical Medicine stabilisce che il range di letalità è intorno all'1%.
E per un virus che è letale all1% si ferma il mondo?
E se la “problematica” fosse un'altra?
Per puro caso ho fatto una ricerca su una canzone dei Muse, Map of the Problematique (da Black Holes and Revelations, 2006) che s'ispira ad una problematica ben precisa.
Nel 1972 uscì un rapporto sui limiti della crescita del mondo Limits to Growth e quindi un limite alle risorse, firmato da Donella Meadows in primis, scienziata del MIT (gli altri autori erano: Dennis L. Meadows; Jørgen Randers e William W. Behrens III; era dedicato alla memoria di Aurelio Peccei, grande figura di imprenditore umanista che lottò nella Resistenza) promosso dal Club di Roma, un think tank che annoverava scienziati, politici, studiosi del calibro di Gorbaciov e Daisaku Ikeda, solo per fare due nomi.
Il rapporto sostanzialmente sosteneva, anche nei suoi vari aggiornamenti degli ultimi anni, che le risorse tendevano ad esaurirsi con l'aumentare esponenziale della popolazione. Il rapporto ebbe vari aggiornamenti, che riporta in parte un articolo del Guardian del 2014 piuttosto approfondito e che riassume come, se non si promuove un equilibrio fra crescita della popolazione e sfruttamento delle risorse naturali (nonché il loro rispetto), queste ultime saranno destinate ad un rapido declino a partire dagli anni 2000 (era pronosticata la crisi economica del 2008) e potrebbero esaurirsi completamente alla fine del XXI secolo, il secolo in cui viviamo.
Se pensiamo che nel 1972 eravamo 3,5 miliardi di persone ed oggi siamo quasi 8 miliardi, e che le risorse del pianeta sono state ulteriormente diminuite, si capisce che il problema forse oggi, non è il covid, - e cito solo un'altra malattia, il Dengue, che conta 390 milioni di contagi ogni anno, che è considerata un'epidemia (decessi -40.000); oppure la “solita” influenza stagionale che, secondo l'OMS uccide ogni anno tra 290.000 e 650.000 persone - piuttosto l'esaurimento delle risorse per tutti. A meno che non diminuiamo come popolazione mondiale e non si pone un freno allo sfruttamento incosciente delle risorse naturali che, ripeto, sono esauribili.
La "problematique" enunciata da Meadows, studiata dal Club of Rome (che ha sede ai Lincei) è il costante deperimento delle risorse naturali in tutto il mondo: molto semplicemente, hanno un termine.
Il distanziamento fisico – erroneamente detto sociale – e l'uso della mascherina, così come l'idea instillata nelle menti di popolazioni intere di essere “corpi contagiati” senza saperlo, quindi aver instaurato la quasi certezza di essere infetti a tutti, - psicologicamente, di essere stati “invasi” da un virus invisibile, come in un film horror -; il divieto dell'avvicinamento persino delle mani (segno anche di rispetto reciproco), di ogni scambio corporeo di affetto; con chi non è a noi “congiunto”; in parole povere l'annichilimento totale degli affetti, del desiderio, della sessualità, su cui vigono divieti dovuti alla “pericolosità” dell'infezione ricevibile da chiunque; tutto questo dopo essere stati agli arresti domiciliari per tre mesi; la brutale conseguenza porterà ad una diminuzione drastica della popolazione mondiale, nonché ad un deperimento altrettanto netto delle capacità comunicative virtuali ed effettive; delle capacità cognitive soprattutto di chi è in crescita; delle capacità affettive di chiunque, maggiormente nei soggetti fragili, per ragioni anagrafiche, sociali, mentali, sanitarie; instaurando una “servitu' della mascherina”, che non è che un bavaglio fisico e simbolico di tutte le espressioni sopra descritte come “umane”.
Cosa rimane?