Fernanda Pivano. La nostalgica anarchia del Beat

Articolo di: 
Milvio Delfini
Fernanda Pivano e Fabrizio De André

L’avevamo vista l’ultima volta in pubblico al fianco di Fabio Fazio a Gennaio per ricordare l’amico di sempre, il suo poeta preferito, il suo concittadino Fabrizio De André.

Molti ricordano di lei principalmente l’instancabile opera di traduzione dei grandi capolavori americani, l’amicizia con Hemingway, Fabrizio De André e Cesare Pavese.

Come se il forte legame con letterati e poeti di quel calibro la rendesse automaticamente degna di sedersi sui troni dell’olimpo della cultura, a prescindere dai meriti individuali. Ma Fernanda Pivano non aveva bisogno di etichette o di amicizie; per lei c’era sempre un posto riservato alla corte di Mecenate, nessuno ignorava la portata di quella colossale impresa filologica a cui si dedicò per buona parte della sua vita.

Sarebbe riduttivo affermare che il suo lavoro consistesse nel tradurre libri: lei li scopriva, li andava a cercare col lumicino, parlava con gli autori. E se poi veniva colpita o, come avrebbe detto lei, s’ innamorava dell’opera, allora cominciava il lavoro di traduzione, reinterpretazione ed adattamento.

Scelse di lavorare sempre rimanendo fedele alla sua linea di pensiero: non era sufficiente passare un libro da una lingua ad un’altra, in alcuni casi era necessario sacrificare parte della purezza stilistica e formale, magari a favore di un linguaggio un po’ più retorico ed ampolloso, per rendere l’opera più vicina alla nostra comprensione, come nel caso di Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Tanto poi ci pensava De André a restituirci testi addirittura migliori dell’originale. Anzi, riusciva persino a superare in bravura Lee Masters stesso. Il binomio Pivano-De André funzionava alla perfezione. Lei estraeva diamanti grezzi dalle prolifiche miniere di Los Angeles, dove si sollazzavano i grandi della Beat Generation, e Faber li tagliava in mille lucenti sfaccettature, donando all’italia gemme rare, tra le quali spicca il glorioso album Non al denaro, non all’amore né al cielo (edito nel 1971 in collaborazione con un giovanissimo Nicola Piovani) in cui la profonda componente poetica si sposava con l’essenza stessa di quella parte di America non ancora pronta per il grande salto del folk beat, ma che a Fernanda piaceva lo stesso, lasciandola inalterata.

Ma se Spoon River rappresentava l’antico, Hemingway, Fante e Kerouac rappresentavano la novità, l’innovazione, l’anticonformismo anarchico e un po’ mondano, molto raccontato e molto vissuto, di Fiesta, Chiedi alla polvere e On the Road. Anche Virginia Woolf aveva notato il potenziale della generazione perduta, ma l’aveva osservata da lontano, con distacco e compostezza. Fernanda Pivano si era invece lasciata sedurre e affascinare dalle loro personalità, preferendo a Montale Allen Ginsberg, e alle rockstar un ancora timido e più che mai eccentrico Bob Dylan, quello ancora un po’ contadino, il timido che cercava di conquistare la sorella di Joan Baez e si parlava nel bavero.

Astri nascenti destinati a divenire stelle comete. Era chiaro come il sole quanto le piacesse assaporare la vita favoleggiata nei romanzi che aveva tradotto. Doveva essere bello girare per le strade di Los Angeles calpestando la stessa polvere che John Fante aveva tanto a lungo odiato, assaporato e divinizzato. Quella polvere del middle west e del west, involontaria tesoriera delle vite e dei dolori, soprattutto dei dolori, dei migliaia di Arturo Bandini che sognavano di diventare scrittori, sceneggiatori e romanzieri, e poi venivano rovinati da Hollywood, come le malelingue dicevano fosse successo a William Faulkner.

Ma non ho mai notato tracce di disapprovazione da parte della Pivano per lo stile di vita del grande rivale letterario di Hemingway. Anzi, credo che sotto sotto amasse molto rendersi complice pura delle scorribande in stile Fiesta di Orlowsky e Greg Corso. Manteneva sempre però quella compostezza e quel rigore militaresco, che spesso suscitava l’irritazione di Corso, il quale soleva domandarle scherzosamente cosa apprezzasse dei ragazzi della beat generation, se non il loro vivere bohémien. Credo che apprezzasse scoprirli ed osservarli da vicino, ma come da dietro una lastra di vetro, e riportarli sotto gli inaspettati riflettori dei salotti e dei circoli italiani. E l’esempio più lampante è certamente l’Antologia di Spoon River, di cui scoprì tutta l’importanza a partire da un libretto portatole da Pavese, che forse prima di lei ne aveva già intuito la misteriosa grandezza.

Fernanda Pivano è scomparsa, ma le sue opere dureranno per sempre, o almeno finché ci sarà qualche anarchico nostalgico, un animale notturno che scorrazza tra Parigi e Los Angeles, pronto a rivivere attimi di gloria ormai passati, ma imprigionati su fogli di carta; pronto a raccogliere un ultimo quadrifoglio da conservare tra le pagine di On the Road. E che vuole essere come loro.

Pubblicato in: 
GN 19/20 5 agosto 4 settembre 2009
Scheda
Titolo completo: 

Fernanda Pivano
Genova, 18 luglio 1917 – Milano, 18 agosto 2009
traduttrice, scrittrice, giornalista e critica musicale italiana

Scelta di opere

- 1943 Traduzione di Spoon River Anthology di E.L. Masters, Einaudi
- 1949 Traduzione di Addio alle armi di E. Hemingway,Mondadori
- 1953 Introduzione a Di qua dal Paradiso di F.S. Fitzgerald, Mondadori
- 1959 Prefazione a Sulla strada di J. Kerouac, Mondadori
- 1964 Introduzione a Poesie degli ultimi americani, Feltrinelli
- 1964 Traduzione e cura di Jukebox all'idrogeno di A. Ginsberg, Mondadori
- 1971 Introduzione a cura di L'altra America negli Anni Sessanta, Officina
- 1972 Raccolta di saggi Beat, Hippie, Yippie, Arcana
- 1976 Raccolta di saggi C'era una volta un beat, Arcana
- 1982 Introduzione e cura di Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle, Intervista a Bukowski, Sugar
- 2000 I miei quadrifogli, Frassinelli
- 2004 The beat goes on, Mondadori
- 2005 I miei amici cantautori, Mondadori
- 2005 Pagine Americane, Frassinelli
- 2008 Diari [1917-1973], Bompiani