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Figli delle stelle. Un rapimento precario
Il precario, pizzaiolo, professore disoccupato Pepe (Pierfrancesco Favino) ed il giovane portuale di Marghera Toni (Fabio Volo), conosciutisi durante una manifestazione al Ministero, decidono di rapire il ministro Gerardi (Fabrizio Rondolino), per aiutare la moglie di un amico di Toni morto sul lavoro. Organizzano il piano insieme al ricercatore, assistente di sociologia, rivoluzionario radical-chic Bauer (Giuseppe Battiston), cugino di Pepe e Ramon (Paolo Sassanelli), appena uscito di galera. Nella confusione di un bagno turco però, rapiscono il sottosegretario Stella (Giorgio Tirabassi).
Si unisce a loro l'aspirante e insicura giornalista tv Marilù (Claudia Pandolfi), che aveva invitato in una trasmissione televisiva Toni per dibattere contro il mal operato del ministro. A Roma resistono per qualche giorno, ma poi si vedono costretti a fuggire in Val D'Aosta, dove si rendono sempre più conto di non riuscire a gestire la cosa, con in più la consapevolezza di aver rapito una brava persona (Stella era in contatto con il ministro per far approvare una legge per una valida e costosa ricerca contro il cancro).
La classe politica è lontana di molto dai problemi dei suoi elettori, dal popolo. E c'è chi non ci sta. E reagisce, violentemente. Ma fallisce. E' possibile che in Italia sia sempre questo il risultato? O chi ci prova finisca nel ridicolo? Che ogni atto di ribellione finisca "male". Questa è un po l'idea che ci lascia il film di Lucio Pellegrini. Non è un film politico, non è un film sul precariato. Va preso per quello che è, ovvero una commedia. All'italiana. Il titolo del film viene dalla famosa canzone di Alan Sorrenti, ritratto di un'epoca, gli anni ottanta italiani, la quale rappresenta un pò l'anima dei personaggi.
E, più che sulla storia, il film è incentrato sui suoi personaggi, che sono la materia vera del film, ai quali il regista, e noi, ci affezioniamo, alla loro condizione, alla loro frustrazione. Pellegrini ce li ritrae affondati nel loro precariato, e la loro precarietà è una condizione esistenziale. Per questo vogliono agire, lasciare il segno. Ma sono dei bravi ragazzi, che non riescono a sopportare il peso di un'impresa così difficile.
Sulle orme del maestro Monicelli de "I soliti ignoti", e su quelle della realtà e dell'attualità, i protagonisti sono impacciati, disperati, fallimentari, sognatori nostalgici sfigati e inconcludenti che rifiutano la realtà e vivono come rinchiusi in un' altra epoca. Partono da un’idea magnanima, ma finiscono per diventare ipocriti, come profondamente ipocrita è la piccola comunità valdostana, dove ognuno dei suoi elementi pensa solo "al proprio orticello" (si intascano i soldi e poi applaudono per la liberazione del sempre più stupito e incredulo Stella). Vivono una realtà conflittuale, una deriva emotiva e sociale, sono autodistruttivi, tra loro e con se stessi. E' comunque un film in stile dinamico, di grande movimento, dove si scherza su una cosa seria, ma che attraverso lo specchio deformato della commedia, con sguardo dolceamaro, sentimentale e comico, ma pieno di frenesia e vitalità, ci lascia un sapore di verità.