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Hoffmann alla Scala. Il percorso di una vita. Intervista a Ramón Vargas
“Les contes d’Hoffmann”, il capolavoro del tardo-romanticismo di Jacques Offenbach, sarà in scena al Teatro alla Scala di Milano dal 15 gennaio fino al 5 febbraio: uno spettacolo firmato Robert Carsen con la direzione di Marko Letonja. Con l’occasione abbiamo intervistato il protagonista dell’opera interpretato dal tenore messicano Ramón Vargas.
Simone Vairo. La regia di Robert Carsen inserisce la vicenda de “Les Contes d’Hoffmann” di fronte agli occhi di un perenne pubblico presente sia sul palco (mi viene in mente il terzo atto) che al di fuori di esso; come se i personaggi fossero inseriti in un’eterna recita ‘incastrata’ all’interno di un contesto ben preciso che sembra li condanni a soffrire (gli anni '50, in un versione decadente, velati da un’immagine dark che, per questo, rende l’opera quasi uno specchio del Don Giovanni che è stato presentato prima di questa messa in scena). Lei è d’accordo con questa interpretazione?
Ramón Vargas. Hoffmann é un personaggio classico del tardo romanticismo e le sue avventure amorose sembrano prese da una tragedia greca dove tutto accade in modo invariabile: un perenne succedersi di circostanze legate ad un invariabile destino che porta il nostro eroe a soffrire senza tregua. La vita è allora un teatro dove noi siamo tutti protagonisti e pubblico.
S.V. “Les contes d’Hoffmann”, in aggiunta, pone al centro della sua vicenda tre intense storie d’amore che, racchiuse nella memoria del protagonista, si concludono attraverso il personaggio di Stella: la cantante da lui tanto amata. In breve, quindi, si potrebbe affermare che i racconti altro non sono che frammenti dell’anima pura e innocente di Hoffmann che, ogni volta, viene ‘inquinata’ dai personaggi che ne vengono a contatto. Lei, signor Vargas, come vede il personaggio Hoffmann? E, soprattutto, quali sono le giuste direttive per interpretare un protagonista così semplice, ma, drammaturgicamente, così complesso?
R.V. Hoffmann non è un’anima pura soltanto, è un uomo pieno d’incertezze e dubbi. Il suo desiderio di verità e di essere accettato attraverso l'amore lo portano a cercare risposte talvolta nelle persone sbagliate. Vedo in Hoffmann il percorso di una vita e lo sviluppo della maturità di un essere umano che impara affrontando dure lezioni attraverso l'amore ed il dolore.
S.V. Secondo il concetto di cosa sia l’amore ne “Les contes d’Hoffmann” mi permetto di citare la frase finale: “On est grand par l'amour et plus grand par les pleurs” (la cui giusta traduzione credo sia: “l’amore ci rende forti, ma, ancora di più, il pianto”). In tal senso, permettendomi di fare delle considerazioni, è possibile che ci sia anche la presenza di Don Ottavio nel personaggio di Hoffmann? Mi spiego meglio: entrambi, in un cero senso, cantano l’amore o lo soffrono (chi per un motivo, chi per altro) quindi io mi chiedo: quando un cantante/attore come lei (che ha interpretato i più disparati ruoli maschili in senso di sentimenti: Germont, Rodolfo, Idomeneo, Don Carlo, Il Duca di Mantova e molti altri) si trova ad affrontare dei protagonisti simili tra loro, a volte vocalmente e a volte ‘affettivamente’, è possibile che utilizzi una traccia canora di un personaggio del suo repertorio per meglio presentare ciò che si sta interpretando nel presente (Hoffmann)?
R.V. Don Ottavio e Hoffmann sono inversamente simili. Ambedue soffrono per amore, però uno (Hoffmann) è impulsivo e l'altro esattamente l’opposto. Don Ottavio non è esattamente romantico, ma una persona pratica e matura.
S.V. Cantare il brano “Kleinzach” è dare un esempio di pura recitazione, ma nel caso dell’aria di Olympia (Les oiseaux dans la charmille - The Doll song) invece assistiamo ad un esercizio di stile. Quindi secondo lei: è possibile separare il semplice canto dalla recitazione in quest’opera?
R.V. Non so se è giusto chiamare “I racconti di Hoffmann” come un’opera lirica. Piuttosto è come una serie di quadri teatrali inseriti uno dietro l'altro. Ognuno è diverso in stile ed in forma uniti poi magicamente attraverso la storia stessa. Somiglia in questo a “La damnation de Faust” di Berlioz (al Massimo di Palermo fino al 29 gennaio con Terry Gilliam alla regia e Roberto Abbado alla direzione). La recitazione in questa opera diventa fondamentale per questo spirito post romantico che deve essere credibile ai tempi moderni.