Supporta Gothic Network
Intervista ad Alvin Curran. Prospettive della musica contemporanea. Parte seconda
Incontriamo Alvin Curran in un'umida serata di fine maggio 2013, il 24, nei pressi del Museo Casa Scelsi a Roma, dove egli si appresta a presentare una serata musicale nella quale il pianista Bruce Brubaker eseguirà un suo pezzo (Hope Street Tunnel Blues,1983), insieme con altri brani di un repertorio minimalista e post-minimalista (dalle celebri Mad Rush ed Études 4 & 5 di Philip Glass, fino a Orizzonte di Missy Mazzoli, passando per il seminale brano di Giacinto Scelsi Quattro illustrazioni). Questa è la seconda parte dell'intervista.
Teo Orlando. Philip Glass è conosciuto soprattutto per il minimalismo...Philip Glass è il minimalismo, Giacinto Scelsi è un altro tipo di minimalista. Io sono un maxi-minimalista.
In realtà, alcuni dei suoi lavori sono stati etichettati dalla critica come affini al minimalismo. Ma in realtà mi sembrano piuttosto differenti da alcuni pezzi minimalisti di musicisti come Philip Glass o di John Adams. Quali sono le principali influenze della musica contemporanea che si riconosce?
Prima di tutto senza giocare con le parole, le devo dire una cosa molto importante. Io sono nato in una famiglia che suonava musica di balera, musica da ballo. Nei primi anni di Roma suonavo al piano bar di via Veneto, ed ero considerato molto bravo a farlo. Per gli americani questo è normalissimo. Gli italiani prima non avevano la cultura del jazz, mentre ora ce l’hanno. Io sono cresciuto con il jazz, la mia e nostra musica, come una canzoncina napoletana in Italia. Non c’è scandalo per me, forse per Elliott Carter che era un aristocratico molto snob. Andava in un ristorante a New York e non poteva ascoltare un pianista jazz che era lì. Invece Scelsi andava mentalmente in tutto il mondo a cercare alcune musiche né popolari né classiche, musiche etniche che oggi diremmo world music: ma di un contenuto, non aristocratico, che poteva parlare a chiunque. Molto di Scelsi ha questa qualità. Ma è molto filtrata, come la mia. Io sono un musicista popolare nascosto, come i compositori di una volta. Se si considera la musica di Kurt Weill, Aaron Copland e Leonard Bernstein. Lo stesso Karl-Heinz Stockhausen suonava jazz nell’immediato dopoguerra nei bar di Colonia (come anche il figlio). Mettere questi due mondi insieme oggi è la cosa più naturale che esista: fa parte delle scandalose esagerazioni quello che fa molta gente intorno alla musica classica europea che sarebbe una forma pura. Mozart, Haydn, Schubert rubavano dal popolino melodie dopo melodie, perfino dai camerieri che cantavano. La musica popolare costituisce i mattoni fondamentali della musica classica.
Lei può certamente essere considerato come vicino ad alcuni tipi di jazz e rock d'avanguardia, ad esempio ensembles come il Kronos Quartet, Bang on a Can Allstars, o Steve Lacy. Potrebbe descrivere la collaborazione con queste persone?
Queste persone non sono altre specie biologiche, sono la stessa specie che sono io. Steve Lacy per me era un genio: ho imparato moltissimo da lui perché sapeva disegnare alcune sagome melodiche incredibili. Aveva un vero dono nel comporre linee. I Bang on a Can Allstars sono la generazione subito dopo di me. Amo moltissimo soprattutto la musica di Julia Wolfe. Bravi anche David Lang e Michael Gordon. Essi pensano di essere i nuovi rockettari, ma non è rock per niente, semmai è il minimalismo vestito con abiti post punk. Quanto al Kronos Quartet, loro hanno dato la sensazione di sapere usare le organizzazioni e la tradizione della musica classica, soprattutto intorno al quartetto d’archi, ed elaborare stravaganti versioni di musica etnica e di altri tipi. Hanno suonato perfino il Quartetto n. 2 di Morton Feldman, di ben sei ore, con il compositore presente. Era una qualcosa fuori del mondo. Possono suonare il jazz, il rock, possono essere il più banale kitsch come violoncellisti. Ma offrono anche uno Xenakis indimenticabile o un Feldman che toglie il fiato. Queste cose sono ciò da cui si può partire per una definizione della musica del nostro tempo. Anche se in realtà non c’è una musica del nostro tempo: la musica del nostro tempo è tutto ciò che capita.
Questo è connesso con la sua concezione degli environmental found sounds?
Certo, però già nel ‘300 e ‘400 e al tempo di Palestrina c’erano dei compositori che cominciarono a sviluppare composizioni per coro usando suoni evocativi dell’ambiente e del mercato, perfino traendoli dalle voci dei pescivendoli. L’idea dello stimolo dell’ambiente mi ricorda pure la musica orribile di Eduard Grieg: i suoi ruscelli sono simili, ma meno suggestivi della musica a programma di Claude Debussy e Maurice Ravel. Da bambino ho dovuto studiare un orribile pezzo per piano di Grieg, The Babbling Brook, Op. 24, No.6. Migliore è probabilmente il concerto per pianoforte e orchestra. Debussy e Ravel sono un altro mondo. L’idea dell’ambiente è sempre stata più primordiale, vi si sente la terra, come nella Sagra della primavera di Igor Stravinskij, composta esattamente 100 anni fa, tellurica e animalesca. Ora abbiamo i mezzi per registrare, ma già negli anni ’40 c’era la musica concreta, elaborata dal compositore francese Pierre Schaeffer. Anche John Cage ha nel 1938 anticipato questa tendenza.
Lei prima ha nominato il post punk. Sicuramente conosce Blaine Reininger e i Tuxedomoon. Dal punto di vista "leggero" ha portato avanti un discorso piuttosto interessante, anche come ricerca.
So molto del mio mestiere, anche degli ambienti a cui appartengo. Ma ho una lacuna enorme dal periodo degli anni ’60, esclusi i Beatles, che amai immediatamente. Ho perso parte della storia del rock, e l’ho recuperata quando sono stato professore al New College di New York, quando gli studenti mi rimproveravano per le mie lacune. Certo, conosco bene Bob Dylan, che appartiene alla mia stessa generazione, ma che però è folk più che rock. Apprezzo cose da fine degli anni ’60, il cosiddetto progressive, come i King Crimson, i Doors, gli Henry Cow, i Soft Machine, Robert Wyatt, i Van Der Graaf Generator. Con il gruppo Musica elettronica viva eravamo molto esigenti e "neorivoluzionari". Volevamo cambiare il mondo e il rock pensavamo che c’entrasse poco. Una volta venimmo messi a Londra come gruppo spalla dei Pink Floyd, ma il pubblico non gradì e rimanemmo pochi minuti. Carina l’idea che aprissimo per i Pink Floyd, che con Ummagumma fecero anche loro una ricerca sperimentale.
Il suo percorso si è una volta incrociato con un'incredibile artista sperimentale, Diamanda Galás. Che cosa ci dice di lei e della sua voce incredibile?
Lei è straordinaria e l’ho invitata al Teatro Tenda spazio zero al Testaccio. La conobbi a Berlino, dove risiedeva per due anni. Negli anni '80 si esibiva in performance sperimentali di difficile fruizione. Il recente concerto di Roma alla IUC è stato breve e quasi solo per pianoforte. Oggi è meno pesante e meno oscura degli anni ’80.
In conclusione, come vede il futuro della musica?
Il futuro è sempre bright. Dal punto di vista marxista, maoista o… idiota, il futuro è sempre splendente. Viviamo in un presente molto duro, con un assestamento dei fatti storici.