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Jazz contemporaneo. Da Chiara Civello a Jan Garbarek
Dal mondo del jazz (e dintorni più o meno stretti) presentiamo qui alcune imprescindibili (o perdibilissime a seconda del gusto) novità, da Chiara Civello a Jan Garbarek, compatibilmente con le difficoltà di approvvigionamento che spesso (se non sempre) incontra l’appassionato di jazz (soprattutto – benché non sia propriamente il caso di chi scrive - se non vive in una grande città).
Si comincia, questa prima volta, con Chiara Civello, che in questi giorni sta girando per l’Italia, salendo sul palco con gli amici di sempre al basso ed alla batteria (rispettivamente Mario Siniscalco e Fabrizio Fratepietro), più affascinante ancora di quanto risulti dalle ammiccanti immagini delle copertine dei suoi cd, imbracciando la chitarra, ma non disdegnando nemmeno, di tanto in tanto, di sedere al pianoforte per accompagnarsi, soprattutto in alcune ballads particolarmente struggenti (e, per suo stesso dire, romantiche).
Vocalist front line senza riserve e dalla personalità a tutto tondo, la Civello si pone nei confronti dell’ascoltatore ricercandone il contatto continuo, offrendosi con generosità, sempre, anche nel vissuto che ne accompagna la carriera. Tanto dal vivo quanto nel disco.
Il suo ultimo album è 7752, un titolo che prende spunto dai chilometri che dividono le due città protagoniste della raccolta, New York (dove la Civello vive da anni) e Rio de Janeiro.
Nel vivo dei suoi concerti Chiara racconta dell’incontro con la cantautrice brasiliana Ana Carolina, in una serata di musica pura e informale, con una chitarra che gira tra i numerosi musicisti presenti, i quali accolgono la cantante italiana e la invitano a far musica insieme a loro (i sarao, ben noti ai conoscitori della musica sudamericana, insomma, hanno colpito ancora).
Racconta, anche, della sua fuga a Rio, città in cui si è catapultata casualmente in un momento di particolare sconforto personale, alla ricerca di un rifugio che è poi anche stato soprattutto la genesi e l'ispiratore del nuovo lavoro. Raccolta-racconto della fuga, 7752, ma anche e soprattutto della riconciliazione della e con la vita, insomma, inciso da una voce timbratissima, nel pieno possesso delle sue notevoli potenzialità espressive, sempre in primo piano, avviluppata e sostenuta da arrangiamenti raffinati, a tratti sontuosi.
L'album, editato nel 2010, contiene dieci brani inediti tra i quali otto prodotti da Andres Levin, e vede la collaborazione di Marc Ribot alla chitarra elettrica, Jaques Morelenbaum (già al fianco di Tom Jobim, Caetano Veloso, Gilberto Gil, Ryuichi Sakamoto) al violoncello e arrangiamento d'archi, Mauro Refosco alle percussioni, Guilherme Monteiro alla chitarra, e la già citata Ana Carolina, che insieme alla Civello ha scritto e interpretato il brano "Resta".
Con 7752 Chiara continua una carriera iniziata per merito e imprimatur del produttore Russ Titelman, noto collaboratore di Paul Simon, Rickie Lee Jones e James Taylor, che, dopo aver ascoltato un suo brano inedito, l'aiuta ad affermarsi come cantautrice, producendo il suo primo album, Last Quarter Moon, per la prestigiosa etichetta Verve, nel 2005, cui ha fatto seguito il secondo lavoro, The Space Between del 2007.
Altra novità di rilievo del mondo del jazz, per quanto attiene all’ambito anche vocale, è Love Songs, il recentissimo doppio album che Anne Sofie von Otter e Brad Mehldau hanno inciso per l’etichetta Naive. Lei è stata, ed è per il vero tuttora, una delle voci di punta dei palcoscenici lirici di mezzo mondo. Lui, invece, è il pianista enfant terrible, allievo di Freddie Hersch ed epigono di Bill Evans (anche se rifiuta il paragone e più in generale ogni parallelismo) che non ha esitato a chiamare i suoi primi album The Art of Trio, numerandoli progressivamente sino al V.
Musicista tra i più raffinati e seguiti, che arriva al jazz a seguito di una rigorosa formazione classica, Mehldau torna per la seconda volta a cimentarsi in duo con una cantante di matrice squisitamente classico/operistica: nel 2006 si trattava di Renée Fleming ed il titolo della raccolta era Love Sublime. Cambio di partner, ma sempre di "love" si canta e si suona. Meglio la seconda prova, comunque.
Voce e pianoforte, l’accoppiata di von Otter e Mehldau, portano, in via logica ed analogica, a segnalare l’omaggio alla voce del blues per eccellenza, Billie Holliday, inciso da Charlie Haden, che per l’occasione si ricongiunge con il Quartet West. Non vale la pena di ripetere quanto ha fatto e stia facendo Haden per la musica afro-americana, anche se meglio sarebbe dire quanto ha fatto per la musica in generale (e, anzi, non solo per la musica). Haden confeziona questa volta un album omaggio, Sophisticated Ladies, che non è probabilmente un capolavoro, ma rappresenta comunque un prodotto di altissimo artigianato e godibilissimo ascolto.
Una singolare (e piacevole) particolarità: trattandosi, come già scrittto, di un omaggio a “Billie”, Haden non ha circoscritto la parte vocale affidandola ad un’unica vocalist, ma ha scelto (e ottenuto) - quasi - il meglio sul mercato (Chiara Civello a parte, ovviamente…): Melody Gardot ("If I'm Lucky" già nel repertorio di Hartman nell’album successivo allo storico incontro con Coltrane); Norah Jones ("Ill Wind"); Cassandra Wilson (intensa nella poco frequentata "My Love And I" di Mercer, già incisa dal quartetto nello struggente Always Say Goodbye del 1993, e in cui Haden ci regala un solo di grandissima passione e cantabilità ed un finale splendido); Ruth Cameron ("Let's Call It A Day"); Diana Krall (in quella "Goodbye" tra l’altro appena rivisitata dal contrabbassista nel duo con Jarrett, il cd Jasmine uscito all’inizio dell’anno per la ECM).
Da notare che quella stessa cantante lirica, Renée Fleming, che nel 2006 incise con Mehldau Love Sublime (cui ho poco sopra fatto accenno), qui presenta un cammeo di tutto valore con “A Love Like This”. E pensare che c’è chi si ostina imperterrito a dissertare sui generi musicali e la loro asserita rigidità…
Un pianismo non eccessivamente lontano da quello di Mehldau, quanto a toni e sviluppo armonico dei temi, è poi quello espresso da Ronnie Lynn Patterson, che, accompagnato da François e Louis Moutin rispettivamente al basso ed alla batteria (parecchi di certo ricordano il Moutin Reunion Quartet), dedica con Music (Harmonia Mundi) un imperdibile omaggio alla musica di Miles Davis, John Coltrane, Thelonious Monk e Ornette Coleman. Anche qui tecnica e tradizione, senso dello sviluppo armonico, libertà espressiva e rigore del linguaggio pianistico si esprimono ai massimi livelli.
Ultime (tre) segnalazioni di pianisti, prima di dedicare qualche riga ad alcune note (perdonate il gioco di parole) negative del recente mercato discografico dedicato al jazz ed ai suoi dintorni.
Sound e mood non troppo dissimile da Patterson sono propri di Franck Kimbrough, di cui Palmetto ha da pochissimo editato Rumors, un album già giudicato (e giustamente) un piccolo capolavoro del piano trio, e in cui la lezione di Bill Evans viene rivisitata e positivamente rielaborata sul filo di confine che collega tradizione e novità, lirismo e costante ricerca di novità.
Per gli amanti del jazz di casa nostra, soprattutto se ultraquarantenni: non perdetevi l'omaggio di Danilo Rea a Fabrizio De André (A Tribute to Fabrizio De André, per l'etichetta ACT), da "Bocca di Rosa" a "Carlo Martello", passando per "Il pescatore" e la "Canzone di Marinella". Non sarà probabilmente il miglior album recente del pianista vicentino (d’altra parte ne ha incisi di veramente eccellenti, in questi ultimi anni). Ma vale comunque la pena, di riascoltare in altro modo un pezzo del nostro (spesso non troppo) recente passato.
Infine, per chi ha voglia di impegnarsi (anche spasmodicamente) nell’ascolto, e soprattutto quando l’ascolto è arduo, ben sapendo che quanto più è difficile ascoltare tanto maggiore sarà la soddisfazione: Geri Allen, Flying Toward The Sound (sottotitolo di copertina, liberamente tradotto: pianoforte solo ispirato da Cecil Taylor, McCoy Tyner e Herbie Hancock). Ogni ulteriore positivo commento risulta francamente superfluo.
E tiriamo innanzi con le dolenti note. Jan Garbarek è stato ed è ancora un grande musicista. Impareggiabile sul palco. Protagonista di incisioni memorabili che hanno accompagnato per oltre tre decenni la storia della musica jazz di matrice europea. Quando suonava in quartetto con un Keith Jarrett che già era Jarrett (e sono passati ben più di vent’anni, oramai) tanti erano quelli che non riuscivano a capire che era il leader. Se lui o Keith.
Solo nel 2009 ha firmato con Dresden un album memorabile. E quindi: di certo non è “bollito”… Nel 1994 ha segnato con Officium una pietra fondamentale nell’incontro-scontro tra generi musicali, soprapponendo le improvvisazioni del suo sax ai sacri stilemi distillati dall’Hilliard Ensemble.
Successo planetario per tutti e anche grande ritorno economico. E per la sua casa discografica, la ECM, la consacrazione di una filosofia del suono fortemente voluta dal padre fondatore della medesima, Manfred Eicher (ma su questo torneremo una delle prossime volte, anche perché ho voglia di approfondire se è nato prima l’uovo o la gallina e quindi se il fantomatico suono ECM preesiste o meno ad un certo manipolo di musicisti soprattutto di estrazione nordeuropea…).
Nel 1999 (dopo peraltro un paio di album di ottima fattura) ci ricasca e pubblica Mnemosyne, sempre con l’Hilliard. E passi, anche se non necessariamente repetita iuvant. Ma adesso che di anni ne sono passati sedici, dal lontano lontano 1994 di Officium, stupisce che l’Hilliard e Garbarek (e ripeto: quest’ultimo dopo Dresden, uno degli album di maggior valore del 2009) tornino ad incidere un disco, Officium Novum, sull’esatta falsariga di sedici anni addietro, utilizzando simili moduli e schemi analoghi. Una sola parola: noia. Ed un solo commento: non ce lo meritavamo proprio.
Ogni ulteriore commento è superfluo. O meglio: sarebbe, superfluo. Infatti ECM colpisce, quanto a noia, insipienza e senso del “già ascoltato” (quantomeno) anche con Quiet Inlet del duo Food con Thomas Strønen alla batteria e Iain Ballamy ai sax (ma non è da dimenticare il contributo di Nils Petter Molvær alla tromba e Christian Fennesz alla chitarra).
Evitate, e basta. Se anche i discografici ci risparmiassero simili inutili melensaggini, chi scrive non dovrebbe farsi violenza per non intingere oltre la penna (elettronica, ovviamente) nell’aceto (del pari virtuale).