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Jónsi al Parco della Musica. La soffusa melanconia dell'elfo
Il folletto Jónsi è giunto al Parco della Musica in Cavea il 21 luglio 2010 con altri cinque elfins (spiritelli anche loro) che lo seguivano nelle sue speculative scoperte del suono, tutte in falsetto tranne la terza Icicle Sleeves, dalle profondità oniriche e darkeggianti, che si muoveva su terreni di toni a volte con venature gravi come il testo: “You wipe tears away with your icicle sleeves” (ti asciughi le lacrime con maniche di ghiaccio, trad.mia).
Cantante e chitarrista del gruppo islandese degli Sigur Rós, Jon Thor Birgisson detto Jónsi, appare su uno sfondo da quadro di Johann Heinrich Füssli, noto per essere sempre accostato alla liriche del pre-romantico cimiteriale Thomas Gray (An Elegy written on a Country Churchyard, 1751), con camouflage pendente tra sciarpe ciondolanti ed il fantomatico chitarrino con archetto.
L’atmosfera in realtà si era creata già prima, quando uno sguardo sparuto sul pubblico aveva puntato la consolle del tecnico del suono e delle luci: una specie di ricadente tappeto-tovaglia orientaleggiante sul beige-aranciato-arabescato pendeva dalla consolle, mentre sopra si ergeva multicolore uno di quei soprammobili di moda negli anni ‘80, rivestito di antennine colorate che si illuminavano cangiando colore e con in più delle specie di lecca-lecca rassomiglianti a pianetini candidi dallo stesso effetto delle antenne.
Il concerto inizia con la meravigliosa ballad di Stars in Still water: “It's early morning, The day is unfolding, ever so softly” (E’ mattina presto, il giorno sta per svelarsi, sempre così delicatamente, trad. mia) le tre luci calde dei lampioni dietro di loro accendono il palco con una soffusa melanconia che dopotutto sembra essere la cifra dominante del suo concerto, tranne nelle hit songs più veloci e ritmate in cui si fa più acuta.
Le proiezioni sullo sfondo prendono la forma di animali, come murali primitivi o medievali che si animano sulle note rarefatte di Hengilás (Lucchetto), dove bruciano sulla carta elettronica dei pixels mentre I tre mondi di Escher (cfr. Three Worlds di M.C. Escher, litografia del 1955) mutano da farfalle in pesci, fluttuanti nell’oniricità percussiva del basso in Icicle Sleeves.
La lingua madre richiama con Kolniður (Mormorio del carbone) gli animali alla vita: una civetta, un giovane cervo ed un lupo che li caccia entrambi, in un climax da versione estesa e con ampio uso di distorsioni flemmatiche.
Su Tornado la luce petrolio investe il palco ed il pubblico, immergendola in un’atmosfera irreale e spingendo a credere nell’impossibile sogno sempre desto, ovvero se la matura infanzia non è un paradosso bensì un ossimoro da curare e coltivare: “you grow like a tornado you grow from the inside” (tu cresci come un tornado tu cresci dal di dentro, trad. mia). I visuals diventano finestre sulle quali l’acqua scorre mentre i rintocchi degli xilofoni fanno galleggiare la rugiada delle fate come un tappeto, all’archetto che Jónsi fa vibrare sul chitarrino tra le mani in Sinking Friendships. Dopo il tic tac dei due xilofoni all’unisono, sprofondiamo tra le dune di Animal Arithmetic mentre i ragni tempestano lo sfondo e la seguente Saint Naive si presenta nella sua cristallina poetica velata.
Un volo pindaricamente ritmato su patine metafisiche e toni alti e veloci la silhouette di Go do mentre il blu azzurrato tempesta di luci il palco. L’apoteosi del concerto insieme alla seguente Boy Lilikoi, nel frantumarsi del rosso si accendono le voci tutte: “Why me, my boy, you burn so bright Do you illuminate?” (Perché io, ragazzo mio, tu risplendi, illumini? Trad.mia.)
Nella ballad di New Piano Song si scorgono lucciole metaforiche brillanti nel blu, mentre tamburella poi con Around us il batterista þorvaldur þorvaldsson, mettendosi a suonare con ai piedi strani zoccoli che conducono ai due encores di Sticks and Stones e Grow Till Tall. Jónsi compare con uno strano cappello piumato di verde e giallo aranciato per l’ultima finale galoppata tra fasci di luce animata.