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Koltès e Santamaria. Il tempo parallelo sul limitar della foresta
Una foresta di cavi grigi su uno sfondo notturno, a tratti abbagliato da una luce nebulosa in centro. Una steppa su cui il monologo di Claudio Santamaria, testo di Bernard- Marie Koltès e regia di Juan Diego Puerta Lopez, si abbatte cupo e senza speranza. Dal 9 al 28 marzo 2010 al Piccolo Eliseo di Roma un dramma dai contorni emaciati, moderno e feroce.
Le gocce d’acqua scendono lente e irregolari nel buio, prima della comparsa dell’unico superstite a chissà quale battaglia interiore ed in attesa qui, sul limitar del bosco, solo per raccontarcelo. Si presenta subito con i tratti di un testo ruvido e veloce, quasi senza pause, come a coprire certi vuoti nello stesso spettatore, nello specchio del pubblico astante.
Un volo caduco quello di Santamaria che deve aver scelto la parte per una segreta assonanza, per un aver esplorato – metaforicamente insieme a Koltès – quei meandri oscuri che dalla mente lanciano un grido verso il cuore di sé stessi, a volte troppo obnubilato dalle paure interne per smascherare l’essenza di quelle esterne. “E’ difficile non guardarsi”, dice: ”si è immersi fra gli specchi”. Ricordo L’anno scorso a Marienbad, il film del 1961 di Alain Resnais (in collaborazione con Robbe-Grillet) che venne premiato allora al Festival di Venezia con il Leone d’Oro: un film tutto basato sulla dilatazione e sull’attesa, in cui la sequenza principale con cui inizia il film è un lungo pianosequenza che ritrae una serie infinita di specchi fine Ottocento in sale labirintiche quanto la Biblioteca di borgesiana memoria.
Qui abbiamo un “tu”, uno straniero cui si rivolge il protagonista in toni drammatici, disperati ed esaperati, raccontandogli la sua vita tra fanciulle dai boccoli biondi e nazistoidi (forse), ed inni ad un Sindacato Internazionale dei Lavoratori che avrebbe dissolto colla sua forza qualsiasi sopruso. Un testo evidentemente elaborato nel 1976 e col temibile sfondo di un Generale golpista che in quegli anni era aiutato dagli americani – in questo caso in Nicaragua come è citato nella drammaturgia – ma che si può facilmente estendere a molti altri regimi dittatoriali che in quegli anni hanno infestato il Sud America (cfr. anche qui i riferimenti).
Questo Generale di cui parla il protagonista si trova al margine della foresta e rappresenta un pericolo continuo perché può sparare in qualsiasi momento, in questa incredibile e permanente minaccia si cela anche la potenziale salvezza di sfuggirgli e a me viene in mente quello che è accaduto nel racconto di Washington Irving del 1820 Rip van Winkle che si sveglia dopo vent’anni, a Rivoluzione Americana terminata, oppure a L'uomo che ritrovò sé stesso di Ambrose Bierce. Ad entrambi succede di svegliarsi dopo molti anni e di non riconoscere più sé stessi e la propria vita, perché modificatasi senza che loro se ne accorgessero. Al nostro protagonista sembra sia accaduta la stessa cosa: si risveglia dopo anni in questo limitar della foresta credendo che tutto questo passato che racconta sia presente perché lui ne è afflitto e lo straniero cui ne parla assomiglia al medico di Bierce che, rendendosi conto di ciò che gli è successo e per non sconvolgerlo troppo tira avanti, comuncandogli soltanto che la guerra è finita da un pezzo.
In questo testo abbiamo proprio questo: un tempo parallelo, quello del protagonista, ed un tempo presente, con cui non collima. Tutto si svolge in questo tempo parallelo in cui il protagonista, drammaticamente ben interpretato da Claudio Santamaria, si immerge, restandone avviluppato fin nel gesto finale, dove scandendo il tempo con colpi di spranga alle funi d’acciaio, mette in scena l’enorme, imberbe distanza con una lotta che è ancora aldilà da venire in questo tempo glabro di eroi.