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Lavia e Marcotulli su Dostoevskij. La verità del sogno
Il 16 maggio 2011, per la rassegna Doppio assoluto. La voce intorno al suono, al Teatro Vascello di Roma è andato in scena Il sogno di un uomo ridicolo, tratto dal romanzo omonimo di Fëdor Dostoevskij, con Gabriele Lavia e il “commento sonoro” di Rita Marcotulli.
Lavia aveva già messo in scena il testo a Spoleto, quindici anni fa, ma già a diciotto anni era rimasto così impressionato da questo libro da tentarne una messinscena con alcuni amici, ancor prima di diventare attore. Ora sente che è proprio attraverso questo e altri monologhi che si è evoluto il suo rapporto con il pubblico, quasi a raggiungere una sorta di sintonia con il respiro degli spettatori.
Il testo di Dostoevskij è incentrato su un sogno che pone il protagonista, arrivato a quarantasei anni e ripiegato sempre più sé stesso, di fronte a una serie di riflessioni sul suo vissuto, che culminano in un crescendo di angoscia e costernazione.
L’incipit parte da quello che potremmo definire una sorta di “fatalismo astrale”, perché il protagonista sembra voler suicidarsi dopo aver contemplato una stella che sembrava suggerirgli di compiere il passo fatale. Né valgono a distoglierlo incontri commoventi, come quello con una bambina che piange per la madre moribonda. Nella mente del protagonista i doveri verso gli altri, così efficacemente trattati da Immanuel Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi, non fanno breccia, almeno in un primo momento (e del resto non agisce neppure l’imperativo etico del dovere verso sé stessi, anch’esso compreso nella medesima casistica kantiana); in un secondo momento, infatti, la compassione, sentimento ben analizzato da Arthur Schopenhauer, prevale fino a distoglierlo dal suo impulso autodistruttivo e indurlo a pentirsene.
È subito dopo che subentra il sogno, il quale porta con sé una "visione della verità": è nella dimensione onirica che si verifica il suicidio del protagonista, il quale paradossalmente “vive la sua morte”, fino a scrutare dall’altro le persone che assistono ai suoi funerali. Finché un essere angelico lo trasporta anni luce lontano dalla Terra, fino alla stella Sirio.
In una sorta di palingenesi il protagonista rinasce in un nuovo pianeta e in una dimensione edenica, dove gli uomini vivono in una sorta di comunismo primordiale senza vincoli legali e proprietà privata. Perfino la religione è di tipo deistico, à la Rousseau, per cui gli uomini non praticano nessun culto, ma hanno “una continua coscienza dell’universo intero”, nella convinzione che la morte apra, in realtà, la comunicazione con l’intera realtà.
Purtroppo, la presenza del protagonista, quasi un essere proveniente da un’altra dimensione, inocula in questa società edenica i virus della menzogna e di altri vizi “umani, troppo umani”, finché non si arriva alla violenza e allo spargimento di sangue. Alla naturalezza e all’ingenuità di questa sorta di paradiso terrestre subentrano la gelosia, l’invidia e il sentimento dell’onore: “Cominciò la lotta per la separazione, per l’individuazione, per la personalità, per il tuo, per il mio”.
La confusione babelica completa il quadro della degenerazione, a cui gli abitanti pensano di poter porre rimedio con l’accrescimento della conoscenza che avrebbe consentito loro di recuperare le radici della felicità. Il sogno si interrompe quando il protagonista chiede, senza essere esaudito, di venire ucciso come responsabile del decadimento di questa sorta di “umanità di una terra gemella”. Da allora decide di dedicarsi alla predicazione della Verità, nella convinzione di averla contemplata già in occasione dell’incontro con la bambina.
Sulla scena Lavia interpreta il personaggio apparentandolo al protagonista delle Memorie dal sottosuolo: come quest’ultimo, anche lui soffre in una condizione di cupa solitudine e in una noncurante indifferenza verso gli altri, sempre pronta a tramutarsi in odio nei confronti del prossimo. I "dannati" di Dostoevskij si sottomettono alle pene dell’inferno terreno, come se fossero privi di libero arbitrio, ma contemporaneamente si dibattono lucidamente dentro il loro Io (un Io, peraltro, moltiplicato e sdoppiato), come il saggio schopenhaueriano che conserva una sua autonomia conoscitiva e morale di fronte alla volontà universale inconscia e irrazionale, acquisendo progressivamente coscienza della propria colpevolezza. L’etichetta di ridicolo spetta al protagonista nella misura in cui ha scoperto il segreto della bellezza e della felicità: non è altro che l’“assurda” proposta d’amore per il prossimo.
Lavia mette in scena con tragicità prepotente, quasi shakespeariana, il dilaniarsi intimo di quest’uomo “ridicolo”, consapevole da un lato dell’impossibilità del suo progetto, ma convinto, dall’altro, che solo continuando a predicare quella che ritiene essere la verità sia possibile trovare il senso profondo e lo scopo della vita.
Da questo punto di vista, Dostoevskij appare meno pessimista di Leopardi e Schopenhauer: l’infelicità dell’uomo non è la sua condizione naturale, e la stessa solitudine che a molti sembra ancorata negli abissi della nostra costituzione morale è un prodotto culturale: anche rispetto a un altre grande “maestro del sospetto”, per molti versi a lui affine, Friedrich Nietzsche, Dostoevskij si pone su un altro versante.
Per Nietzsche, “le verità sono illusioni, di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore, che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete” (Su verità e menzogna in senso extramorale).
Dostoevskij invece attribuisce al protagonista la speranza di poter realizzare una completa comunione con gli altri annullando la propria individualità, considerata l’origine della condizione conflittuale, quasi hobbesiana, che ha trasformato la terra in un sottosuolo. Ed è appunto il contrasto tra il sottosuolo e la limpidezza della coscienza umana a costituire il tessuto connettivo della musica della Marcotulli, che con sapienti pennellate jazzistiche si combina perfettamente con le modulazioni della voce di Lavia, così come in un’altra occasione aveva saputo mirabilmente commentare i film di François Truffaut.