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MACRO Fotografia Festival Internazionale di Roma. Ecopreservazione tecnologica
Apre al MACRO di Testaccio il Fotografia Festival Internazionale di Roma fino al 24 ottobre 2010 che si snoderà in plurime direzioni in istituti culturali e gallerie per lo più sparse per il perimetro centrale di Roma tra cui Lo Crudo Cocido all’Istituto Italo-Latino Americano con rispettivo premio. Gli autori che abbiamo esaminato nell’ambito del tema centrale delle Futurperspectives, sono tutti centrati sul tessuto urbano e le sue trasformazioni, soprattutto riguardo a dominazioni eco tecnologiche di distruzione e preservazione.
Il Big Ben insieme al Parlamento di Londra avvolto in fumi rutilanti e ondivaghi: Above London (2005 tutta le serie) di Ebru Erülkü (Germania), fiammeggia tra lingue i cui lapilli divorano la torre dell’orologio quanto il ponte dai parapetti divelti. Tra le quattro pareti dedicate alle vampate di Erülkü si svela quanto di distruttivo possa esserci nell’elemento fuoco, ed anche nella onnisciente tecnologia che invade la natura ormai da conservare in musei come affermano le paesaggistiche foto di llka Halso, finlandese, le cui serre per alberi e parchi sono estremamente suggestive. La grande serra immaginifica di Kitka River, intitolata appunto The Museum of Nature fa il paio con Museum 1, lunatica visione notturna di un gruppo di alberi in un fascio di luce blu e gialla.
Cédric Delsaux (France) con The Dark Lens (Star Wars, 2008) disegna un altro paesaggio semiapocalittico: le onde laminate del metallo sono quelle dei gigantici tubi probabilmente de La Défense di Parigi, di certo non del centro. Altro discorso per i bambini terrorizzati e lacrimanti di Jiil Greenberg (Canada), terribilmente legati agli attentati odierni, ed al timore della fine: l’apocalisse per i terroristi è certa, soltanto una questione di tempo.
La chiesa di Giuliano Matteucci (Italia) premio Fotografia Baume & Mercier, è la Ecclesia costruita un po’ da sé nei luoghi più poveri del mondo, dove un’icona ed una tanica d’acqua per gli ospiti la rendono accogliente. Oasi dove si stendono per kilometri soltanto deserti di cose e di persone oltreché di sabbia. Alberi rattrappiti e smarriti tutti distanziati l’uno dall’altro e dove le foglie ed i rami spuntano coraggiosamente. Mali, Burkina Faso, territori dove la povertà si estende come un’epidemia contro la crisi di quella società di mercato che non ha voluto farli evolvere nemmeno per creare quei nuovi consumatori che oggi avrebbero lenito il detto mercato. Un contrappasso del tutto occidentale.