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New York Minute. La luce liminare del giardino
Probabilmente il minuto di New York, sebbene di 60 secondi anch’esso, deve essere più breve e dinamico di quello – seppur cosmopolita – romano. Questo spiega il titolo della mostra New York Minute, inaugurata il 20 settembre e fino al 1° novembre 2009 negli ampi spazi del Macro Future dell’Ex-Mattatoio di Roma.
Sessanta artisti da New York che profilano una visione del mondo a rischio, esattamente come le tre sottocategorie in cui Kathy Grayson, curatrice della mostra per la Fondazione Depart, sostengono: Street Punk, Wild Figuration e New Abstraction. Di certo non è difficile distinguere il repertorio e l’immaginario punk nelle opere di Scott Campbell (1976) e di Kembra Pfahler (1961).
Kembra è una perfomer che ha dato vita al gruppo The Voluptuous Horror of Karen Black ed è dagli anni ’80 alla ribalta della scena newyorkese alternativa con scioccanti performance outrageous (oltraggiose) sia sessualmente che esteticamente. E’ riconoscibile soprattutto per il tipico vestiario composto da pantaloncini neri con bottoncini bianchi molto stretti (hot pants) e stivaloni sopra il ginocchio con stringhe bianche. Il Blackie è il finto premio inventato da lei e composto dalla statua della libertà in total black e con un pentacolo al posto del fuoco olimpico nella corvina mano. E sottende sensi ancora più alchemici scandendo sopra un pannello nero la scritta in bianco: "You know when you’re striken/you’re striken quickly/so why not die as you lived/ritualistically".
Rimanendo sul black per ispirazione e tensione, Scott Campbell ci accoglie con un pentagramma rovesciato con un caprone dentro, si chiama Pentagram appunto: simbolo ovviamente diabolico (punta verso il basso quindi inversione del principio spirituale), insieme ad un teschio Skull, ad un Cobra ed a un Heart 2 che incide di nuovo nel mucchietto di dollari americani un bel cuore con in cima un teschietto. Immaginario massonico e diabolico sono uniti in questo simbolo del capitalismo per questo famoso artista del tatoo che ha pienamente colto i significati sottesi ed intrinseci al principale mezzo di scambio americano, come la piramide con l’occhio in cima, oppure il gufo all’estremo lato destro.
Per continuare in senso alchemico esaminiamo ora la luce di questa mostra che si è riversata dentro una piccola stanza con una proiezione video del collettivo formato dai ThreeAsFour formatosi nel 2000. She tends a Bonsai in her Crystal Dream è un intarsio di luce su uno schermo a specchio intessuto di cristalli Swarovski che rilucono su immagini di donne vestite di bianco e nero mentre curano un bonsai.
Quasi delle madonne orientali che, in un giardino fittizio, si adoprano per coltivare piantine in crescita: ad elevare un recinto di luce tra sé e il mondo, quel mondo in guerra come due dei loro paesi di provenienza, Libano e Israele, mentre il terzo, il Tagikistan (in prevalenza musulmano) forse agisce da moderatore, immaginariamente. Essere invasi dalla luce in quel giardino in cui, come dice Pascal: “In un giardino il mondo si perse, in un giardino fu redento”, significa provare su di sé la possibilità di operare creativamente ed allo stesso tempo essere protetti da quel cerchio magico che attiva la luce nel giardino, luogo da sempre circoscritto dove si giunge in asilo. E allora la luce abbagliante del faro, sebbene artificiale, è una luce a metà fra l’uomo e il divino, in quel territorio liminare dove tutto è ancora possibile, soprattutto ciò che è immaginabile.