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Opera di Roma. Il Faust adolescente di Stone
A distanza di 12 anni, torna Mefistofele di Arrigo Boito al Teatro dell'Opera di Roma, inaugurando la nuova stagione 2023-2024 del Teatro Costanzi, denominata S|CONFINAMENTI. Segna anche il debutto operistico in Italia del regista australiano Simon Stone. Questa nuova produzione è stata sul palcoscenico dal 27 novembre al 3 dicembre, con un cast eccezionale: al primo posto il Mefistofele di John Relyea nel ruolo del titolo, Maria Agresta nella parte di Margherita/Elena e Joshua Guerrero in quella di Faust.
Lo spettacolo – coprodotto con il Teatro Real di Madrid – ha visto impegnato sul podio il direttore musicale della Fondazione Capitolina Michele Mariotti, che ha affrontato il titolo di Boito per la prima volta, dando un'ottima prova: "diabolicamente" eccelsa, potremmo dire.
La storia del Mefistofele però è travagliata; difatti la prima assoluta al Teatro alla Scala il 5 marzo 1868, di ben sei ore, venne (per fortuna!) tagliata sette anni dopo e finalmente con successo presentata a Bologna nel 1871.
Mefistofele nasce da Faust a Praga intorno alla fine del '500; poi la leggenda viene ripresa intorno al 1590 da Christopher Marlowe – che fa morire Faustus, nel suo caso, dopo un estremo e tardivo pentimento – ed ancora da Johann Wolfgang von Goethe, che, in epoca romantica di cui è fra i più eminenti esponenti, ne pubblicò una versione in versi nel 1832: da qui Arrigo Boito, lo "scapigliato" per antonomasia, trasse il suo libretto.
Veniamo alla versione dell'australiano nato a Basilea in un anno clou, il 1984, Simon Stone. L'Empireo dell'Epilogo, a cura di Mel Page (scene e costumi), è completamente bianco e ordinato, sembra quasi un tribunale, però con i Cherubini sotto che ammorbidiscono la visione. Da sotto, su una scala a chiocciola, sale Mefisotfele imporporando il palcoscenico con le luci di James Farncombe.
Il quadro seguente della Domenica di Pasqua è molto interessante: ci troviamo a una festa di paese, anch'essa eburnea, con tanto di zucchero filato e dove si aggirano Faust e Wagner (il bravo Marco Miglietta): giostra candida per i bambini e clown in bianco con naso d'argento (cocaina?), che si rivela essere il "buon" (si fa per dire) Mefistofele che si "rimorchia" Faust da consumato pusher e viene da lui invitato nella suo studio medico. Quest'ultimo, con appese le radiografie di un agnello, un ratto, un asino, un cane, un uomo e un bambino, è il luogo principe per l'assoggettamento di Faust a Mefistofele, tra alcool e due ragazze, una di verde vestita, l'altra di rosa (parente cromatico del rosso, che insieme al verde sono i due colori del diavolo).
La scena con le palline colorate, agevole giardino della concupiscenza per gli adolescenti (con cellulare) Faust e Margherita e Mefistofele e Marta (la brava Sofia Koberidze, che poi interpreta Pantaslis nel sabba classico), è un passaggio dovuto d'intermittenza al grand-guignol seguente del Sabba delle streghe, la scena meno digeribile di tutte: tutto bianco con il Coro sulle scale come un tribunale, entra Mefistofele, con passi e mosse da gerarca nazista e, sotto un maiale appeso e sanguinante, battezza col sangue i proseliti, o iniziati, vestiti con intimo bianco che sfilano come streghe e stregoni. Faust viene "iniziato" come loro e dà poi fuoco al bidone come un adolescente di periferia, anche lui, sempre in bianco. Da Osiris ai funerali dei bambini, fino alla Cina, il bianco è colore funerario come il nero, ci viene in mente a tergo.
La possenza della voce e della presenza di Mefistofele è assicurata dall'inizio alla fine dal basso John Relyea, che ha già interpretato il diavolo nell’opera di Boito nella messa in scena di Alex Ollé del 2018, e che ha impostato volutamente la bocca a ghigno fin dall'inizio, una caratura attoriale e vocale inestinguibile, anche quando perderà il suo adepto nella scena finale. Il Faust di Joshua Guerrero, anche lui al debutto con la Fondazione capitolina, è buono, però debole in confronto. La vera vincitrice però, decretata dalla gran voce del pubblico, è il soprano Maria Agresta: la cui versione di Margherita è assolutamente da brividi e da commozione; non da meno la sua interpretazione di Elena di Troia.
Una delle scene in assoluto più commoventi è il duetto tra Faust e Margherita, in cui lei, finita in prigione per aver avvelenato la madre per volontà di Faust ed aver ucciso il suo "fantolino", incontra Faust che vorrebbe salvarla con l'aiuto del "maligno", cui lei si sottrarrà invocando la Vergine, estremo sacrificio anche per Faust in Goethe e in Berlioz. La "perdizione" del loro rapporto sessuale è solo "consumistica" e proiettata su uno schermo mentre la vita scorre, non vissuta, davanti ai loro occhi.
L'altra notazione "politica" è per la scena del sabba classico, interrotto dall'eccidio dei partecipanti e dai salvifici militari con stelletta italiana, a ricordarci di quanto avviene ogni giorno in Palestina, risultando però un po' ridondante.
Scena ultima: reparto di un ospizio dove si aggirano vecchi e malati Faust ed altri pazienti; Faust però sta per pentirsi e, quando pronuncerà il fatidico: "Fermati attimo, sei bello" pentendosi, avrà salva l'anima e sarà finita per Mefistofele. A ricordarci, come ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov, che: "Tutto finisce nel nulla".
Protagonisti assoluti della serata, oltre alla bravissima Orchestra del teatro dell'Opera diretta da un preparatissimo ed attentissimo Michele Mariotti, i Cori tutti, diretti da Ciro Visco, con una lode per l'angelico Coro di voci bianche del Teatro. Qualche boo solo per la regia e le scene; per il resto, sperticati applausi per la direzione d'orchestra, voci e Cori.