Supporta Gothic Network
Opera di Roma. Il panoptikon corale di Janáček
Per la prima volta a Roma, al Teatro Costanzi, giunge, in un'inedita versione, Da una casa di morti (Z Mrtvého Domu) di Leoš Janáček. È stato al Teatro dell'Opera di Roma dal 23 maggio fino al 30, in un allestimento proposto in prima italiana e firmato dal regista polacco Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro della Biennale Teatro a Venezia e con il giovane bielorusso Dmitry Matvienko, anche lui al suo debutto operistico in Italia. Classe 1990, alla direzione dell'Orchestra. Realizzato in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, il Théâtre de La Monnaie di Bruxelles e l’Opéra National de Lyon, Da una casa di morti rappresenta il secondo tassello di un progetto triennale dell’Opera di Roma dedicato a Janáček, inaugurato con Káťa Kabanová nella stagione 2021/2022 e che si concluderà nel maggio del 2024 con Jenůfa.
Da una casa di morti (Z Mrtvého Domu) è stata rappresentata postuma per la prima volta il 12 aprile 1930 al Teatro Nazionale di Brno, a due anni dalla morte del compositore. La stessa gestazione dell'opera è stata molto travagliata, nonostante Leoš Janáček abbia trascorso almeno un anno e mezzo a comporre sia il libretto sia la musica. Gli ultimi anni della sua vita sono quelli delle matrici eccellenti di Káťa Kabanová, come de La piccola volpe astuta e de L'affare Makropulos, e dell'agognata celebrità, ma il destino lo perseguiterà in quest'opera, dalle molte rimaneggiature, che finiscono per distorcere musica e finale, aggiungendo quella che Jiří Zahrádka, curatore del Dipartimento di Musica al Museo Moravo e Professore di Musica all'Università Masaryk, chiama ”un'apoteosi della libertà” (cito dal programma a p. 152). Da una casa di morti è stata anche modificata dal direttore d'orchestra Rafael Kubelik a Monaco, come ci informa sempre Zahrádka, solo nel 1974 fu eseguita l'edizione originale da Vaclav Nosek all'opera lirica di Brno. Charles Mackerras e John Tyrrell ricomposero l'edizione origjnale di Janáček. Nonostante quest'edizione dica di richiamarsi alla ricomposizione di Tyrrell del 2017, appare tuttavia il finale assente dall'originale con il protagonista Gorjančikov che viene liberato e l'aquila che spicca il volo della “libertà”.
La parte musicale dell'opera è particolarmente moderna, con l'uso di timpani accordati, molte dissonanze introdotte nei temi principali, nonché citazioni dalle proprie opere, dall’incompiuto Concerto per violino (1927) ad alcuni passi e sonorità evocatrici di un’altra tra le sue maggiori opere degli ultimi anni, la Messa glagolitica (1926). Il carattere parlato della componente vocale ha una novità nella voce di Aljeja, come ci informa Franco Pulcini: “La cui parte è affidata ad una voce di soprano, ma nella partitura a stampa, pubblicata postuma, è affidata ad un tenore”. Aljeja è l'unico innocente insieme al protagonista che introduce la storia ma che poi passa in secondo piano, essendo Da una casa di morti un'opera corale sulla detenzione ed il suo dramma intrinseco. Alexandr Petrovič Gorjančikov è l'aristocratico detenuto politico, memore della biografica ispirazione di Janáček, ovvero Memorie da una casa di morti di Fëdor Michajlovič Dostoevskij: lo scrittore fu infatti detenuto in Siberia ad Omsk per quattro anni, dopo esser scampato alla fucilazione ordinata dallo zar pochi minuti prima che fosse eseguita, nel 1849. Le Memorie furono pubblicate sulla rivista Mondo russo tra 1860 e 1862, di molto affievolite nelle sue tenebre senza luce da un'autocensura dovuta a tutti gli stenti trascorsi ed alla paura di ritornarvi: ricordiamo che Dostoevskij cominciò in carcere a soffrire all'intestino, oltre che di reumatismi, ed aveva crisi di epilessia; tra l'altro, si salvò da un avvelenamento perchè un cane, Zucka, essendoglisi affezionato e senza saperlo, bevve il latte al posto suo.
La differenza sostanziale che però notiamo subito è che quella compassione cristiana che in Dostoevskij si trova soprattuto ne L'idiota (1869), forse la sua opera più matura, nel libretto e nella musica di Janáček latita del tutto. L'universo della detenzione e della sorveglianza, dei ricordi dei crimini, è rimodernato in un panoptikon benthamiano del tutto coevo ed occidentale dal regista Warlikowski, mostrandoci un detenuto che gioca da solo a pallacanestro. Poi viene proiettato – i video sono a cura di Denis Guéguin - uno stralcio della conferenza che Michel Foucault tenne all'Università di Bahia in Brasile nel 1976: il filosofo e sociologo è celebre per i suoi scritti sulla follia, Storia della follia nell'età classica (1961), sui sistemi detentivi e punitivi, Sorvegliare e punire (1975). Citiamo dall'estratto (contenuto nel progframma di sala), sovracitato e proiettato in inglese:
“Si creano prigioni come sistema di repressione affermando che sarà un sistema di rieducazione. La prigione è un addomesticamento ti tipo militare e scolastico per la produzione di individui obbedienti. Piu' a lungo l'individuo rimaneva in prigione, meno era rieducato e piu' era delinquente. Piu' delinquenti, piu' crimini sono commessi, piu' paura ci sarà nella popolazione e piu' accettabile diventerà il sistema di controllo della polizia. Nei giornali, nella radio, alla tv, in tutti i paesi del mondo senza alcuna eccezione, si conceda spazio alla criminalità. Dal 1830 si sono sviluppate campagne sul tema dell'aumento della delinquenza, fatto che non è mai stato provato. La minaccia è un fattore di accettazione dei controlli.”
Noi pensiamo alla Cina, che ci viene presentata solo considerevolmente come positiva per gli aspetti di guadagno economico, raramente ci viene ricordato che il sistema di sorveglianza cinese è da anni biometrico e fondato sui crediti sociali, ovvero sua una “concessione di alcune libertà”. Strano che l'Occidente, cosiddetto “democratico”, non ricordi questo totalitarismo assoluto prodotto in seguito a quella che è stata chiamata “Rivoluzione Culturale” (1966-1976) che condusse Mao Zedong al potere con l'aiuto soprattutto di studenti delle scuole inferiori e superiori che appoggiarono lui e le Guardie Rosse nel far fuori la “vecchia generazione” e dando inizio a quella che è la dittatura totalitaria più estesa al mondo. Naturalmente, docenti di tutti i gradi ed intellettuali di tutti i tipi vennero fatti “scomparire” nei luoghi più remoti della Cina (o del tutto eliminati) e perseguitati fisicamente e psicologicamente, come avviene tuttora.
Durante la messinscena, tra un quadro ed un altro, vediamo un altro estratto in video di un'intervista, forse di qualche anno fa, di un giovane Aboubakar Soumahoro, sindacalista ed eletto nelle liste di sinistra e verdi (la cui suocera è stata accusata di malversazione, sottrazione di fondi), che dice, in inglese: “We don't know what it's like to die” (non sappiamo come è morire, trad. mia), comparando la morte alla prigionia. Christian Longchamp, drammaturgo di questa versione di Da una casa di morti, nel programma asserisce: “Il controllo del pensiero in diversi stati democratici sta raggiungendo proporzioni preoccupanti. La prigione ideologica prefigura la prigione fisica” (p.126). Ecco, questa appare evidentemente una delle sottolineature di questa versione dell'opera però, sena una rilettura profonda anche del libretto e del programma di sala, è inafferrabile dalla visione dell'allestimento. Vi è un'incoerenza di fondo che appare stridente con il senso dell'opera stessa ed il senso stesso può venirne facilmente travisato e non colto; mentre è piuttosto evidente che l'intera messe di condannati, prima tradisce sé stessi e poi le loro amate, spesso uccidendole.
Il direttore bielorusso Dmitry Matvienko, che ha diretto bene l'orchestra ma senza un coinvolgimento vero e proprio, intervistato da Mario Leone nel programma, afferma: “Janáček ha saputo trasmettere l'atmosfera della prigionia e della quotidianità carceraria con puro misticismo: solo nelle sinfonie di Šostakovič ritrovo questo afflato” (p.141). Ecco, ho trovato che le voci, special modo quando ognuna ha raccontato la propria storia, ha trovato il suo filo: la voce baritonale di Mark S. Doss (Gorjančikov), che conosciamo da The Bassarids di Henze qui al Costanzi nel 2014, è stata la piu' appassionatamente velata di compassione, soprattutto nel suo duetto con Aljeja, altra voce notevole e piu' dolce, del tenore Pascal Charbonneau. Julian Hubbard, nella parte di Skuratov, è graffiante nella sua nostalgica ammissione di colpevolezza, mentre si fa “odiare sinceramente” per cinismo e cruderltà l'eccezionale Clive Bayley, il Julius Ceasar di Battistelli all'inaugurazione della stagione 2021-22. Štefan Margita, nella parte di Luka (in realtà il pentito Filka), commuove anche lui, nel perdurare di un'atmosfera che negli episodi teatrali (Kedril e Don Giovanni, e La bella mugnaia) raccontati dai detenuti, diviene “un inferno sul palcoscenico”, con la presenza dei diavoli; l'uccisione farsesca e splatter di tre bambole a grandezza umana, e dei tre amanti de La bella mugnaia, compreso il bramino (hare krishna) che danzerà con lei fino alla morte. Mentre le luci acide di Felice Ross creano un clima da boudoir malfamato, i costumi “alieni”, penso alle maschere degli amanti, di Małgorzata Szczęśniak destano disagio, come se i volti non avessero piu' importanza, essendosi gli uomini mutati in bestie (e belve). La stessa aquila che porta tatuata Aljeja sulla fronte, e torturata all'inizio, a sottolineare che il sadomasochismo appartiene a tutti i prigionieri, tranne Gorjančikov e Aljeja, che verrà colpito per sbaglio e condotto in infermeria vegliato dal metaforico “padre” Gorjančikov. In questo ambiente iperreale, dissacrante, il Pope è presente con la moglie, dove tutto viene sovvertito, anche con il beneplacito delle guardie che poco intervengono, sembrano complici di questa dissoluzione nella disperazione e nella “conta dei propri mali e delle proprie pene”, e quindi anche il Coro, diretto con cognizione dal Maestro Ciro Visco, non riesce a “sollevare” dal basso verso l'alto la tragedia di un'umanità dedita al ricordare l'”inferno” nella quale è caduta, condannata a ripeterne costantemente e per sempre, analogicamente, il fìo.
Le coreografie,a cura di Clòaude Bardouil, sono ispirate in parte alla breakdance degli anni '80 ed in parte a movimenti fluidi postmoderni, estremamente espressivi: un misto che va ben d'accordo con l'ubicazione in palestra dell'allestimento. Annotiamo a margine che gli episodi di lotta, anche con armi, sono stati guidati dall'eccellente Maestro Renzo Musumeci Greco.
Ahimè, stavolta è stato impossibile non udire i lunghi e forti “buuh” dal loggione, evidentemente dovuti alla messinscena – che ha ricevuto nel 2019 il premio per la Miglior Nuova Produzione agli International Opera Awards di Londra – e che, come ripeto, appare meno incoerente solo dopo un adeguato studio del programma di sala intessuto di quegli estratti che abbiamo disseminato, citandoli, e potendo così conferire un senso pertinente a ciò che in prima battuta, ci è sembrato del tutto disconnesso dall'opera e dal suo testo connettivo.
Ultimiamo ricordando che, oltre che al compositore Janáček, dobbiamo ringraziare anche a tergo la musa ispiratrice della maggior parte della sua produzione finale, la giovane Kamila Stösslová conosciuta nel 1917, donna sposata come lui, e che nondimeno agì da fulcro nervino per tutto l'apparato emotivo che permise anche quest'ultima opera.
Chiudo con una citazione da Memorie da una casa di morti di Fëdor Michajlovič Dostoevskij:
“Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile, di modo che il più tremendo assassino rabbrividisse all’idea di un simile castigo e ne avesse paura fin da prima, allora basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità e assurdità.”