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Napoli Teatro di San Carlo. Káťa Kabanová, il cieco impulso del volo
E' dal 1968 che mancava Káťa Kabanová di Leoš Janáček al Teatro di San Carlo e vi è ritornata con una ricca e raffinata produzione della Staatsoper di Amburgo con la regia di Willy Decker ripresa da Rebekka Stanzel e le scene ed i costumi a cura di Wolfgang Gussmann ed il notissimo Juraj Valčuha, che ha diretto l'Orchestra Nazionale della Rai fino al 2016, anno in cui è diventato direttore musicale proprio al San Carlo. Dal 15 al 20 dicembre uno dei vertici della produzione operistica del ceco Janáček, che tanto ha approfondito il dramma al femminile di una società in evoluzione ma fortemente radicata nel patriarcato come quella russa, è in scena con un doppio cast eccezionale, con Barbara Haveman nel ruolo principale di Káťa e Magnus Vigilius in quello di Boris.
A Brno, il 21 novembre 1921, si è svolta la prima assoluta di Káťa Kabanová, lì dove ogni due anni vi è un Festival dedicato al compositore, essendo nato a Hukvaldy, lì vicino, ed avendo trascorso quasi tutta la sua vita nella città ceca di Brno, un gioiellino a circa un'ora da Vienna. L'anno successivo, Otto Klemperer la dirige a Colonia nella traduzione tedesca a cura di Max Brod, cui si deve tanto del successo dell'opera.
Janáček ha tratto dal dramma L'uragano del drammaturgo russo Aleksandr Ostrovskij la storia di Káťa, sposata con Tichon, un uomo senza nerbo e sottomesso alla madre Kabanicha, che umilia la giovane moglie eseguendo pedissequamente i suoi ordini, anche davanti alla sorellastra Varvara che difende Káťa e le propone una via di fuga scegliendo Boris come amante, non pienamente consapevole della tragedia che avrebbe scatenato. Nella notte dell'uragano, che nella pièce di Ostrovskij dà il titolo all'intera tragedia, Káťa confesserà l'avvenuto tradimento in un impulso autodistruttivo di annientamento completo piuttosto che scegliere di rinunciare ad una vita ricca di pathos, come quella provata nei dieci giorni di passione con Boris, figlio di Dikoj. Il mercante vorrebbe una relazione clandestina proprio con l'ipocrita madre di Tichon, Kabanicha, che di Káťa detesta proprio il suo sottrarsi alle convenzioni vigenti nel piccolo villaggio di Kalinov. Lo stesso nome del villaggio non è scelto a caso, derivando dal folclore di fiabe e leggende dove si poneva come “luogo di confine”, ed attraversare il Ponte Kalinov, è un'espressione popolare diffusa che sta a significare sia “morire” sia “sposarsi”: innervando una connessione simbolica con la rovina e la felicità di Káťa. La stessa pianta del viburno, kalina, da una parte rappresenta sia l'ebbrezza della giovinezza, sia l'amore infelice.
La messinscena ideata da Decker con Gussmann alle scene ed ai costumi pone naturalmente l'accento sul portato simbolico della “chiusura” all'esterno della casa dove vive Káťa, continuamente oscillante tra due spinte dominatrici dentro e fuori di lei: quella alla sottomissione alle regole comunitarie incarnate aspramente dalla gelida e disumana suocera; e quella alla ribellione che l'avvicina a Varvara, intermediaria fra lei e Boris. All'interno della casa in legno di faggio chiaro della Russia rurale, - siamo intorno al 1860, ancora con la servitu' della gleba - in fondo una scatola che ingloba Káťa come tutti gli altri, lei sogna uccelli che volino via lontano, non appena si apre il soffitto della casa per mostrare uno spicchio di cielo. L'orizzonte però non si apre mai del tutto, incapsula gli abitanti di questo paesello sulle rive del Volga da cui Káťa non può uscire se non gettandosi nelle acque del fiume. Autodistruttiva fino al parossismo - l'héautontimorouménos baudelariano al femminile -, confessa l'adulterio di fronte a tutta la comunità che chiaramente la condanna, lei, che aveva firmato la sua agonia in anticipo estorcendo la promessa prima a Tichon poi alla suocera - che se ne era appropriata - di rinchiuderla affinché eviti il tradimento. Siamo ad un passo da Katerina Ismailova, la Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovič, anche lei in gabbia, perseguitata dal padre (e non dalla madre, ma con le stesse funzioni) del marito, anche lei con un amante vigliacco come Boris. La tremenda Kabanicha, la madre di Tichon, che odia lei come tutte le donne piu' giovani e lei in particolare perché le porta via l'affetto del figlio su cui lei vuol continuare ad avere il dominio assoluto.
L'allestimento, con i suoi colori spenti o assoluti sia nelle scene sia nei costumi: dal beige del legno chiaro, ai grigi o panna di alcune vesti, la sottana di Káťa, fino ai neri vestiti delle donne e degli uomini del villaggio, in lutto perenne, di per sé è una condanna alla rassegnazione ed allo spegnimento di qualsiasi impulso o passione che alberghi nell'ultimo rantolo di gioia e aspirazione alla felicità di Káťa come essere umano. La viola d'amore che dolcemente la tinge di malinconia, non fa che amplificarne l'effetto in quel si bemolle maggiore che le dona una particolare liricità, molto suadente e mai lesiva pur nell'ultima scena del suicidio, dove la voce di Barbara Haveman si connota ancor di piu' con un fraseggio mobile e caldo, pieno e vibrante, che ci ha completamente conquistati. Boris era suggestivo nella potenza di Magnus Vigilius e giustamente venato di tristezza: accorto nel rivelare la sua passione e guidato sempre da lei in fondo. Barbara Haveman, soprano olandese di statura internazionale ed esperto di ruoli wagneriani – Elisabeth in Tannhäuser ad Amburgo ed Essen; Elsa in Lohengrin ad Anversa – la rivedremo al San Carlo a maggio nel ruolo di Sieglinde in Die Walküre. Magnus Vigilius, altro tenore wagneriano, - sarà Walther von Stolzing in Die Meistersinger a Lipsia – e lo ricordo proprio nello stesso ruolo nella messinscena di Káťa Kabanová a cura di Robert Carsen a Torino, dopo il grandioso successo a Brno nel 2016 al Festival Janáček insieme alla vivace voce del mezzosoprano Lena Belkina come Varvara. Kabanicha è cantata dal soprano slovacco di lunga carriera Gabriela Beňačková, la prima a cantarla al MET insieme alla Rusalka di Dvorak, ha pienamente svolto la sua parte con una voce cinetica e aspra; contraltare al figlio Tichon, interpretato da Ludovit Ludha, tenore slovacco, ha svolto egregiamente la sua parte così come il basso Sergej Kovnir nella parte odiosa di Dikoj, umiliante padre di Boris. Di buon livello tutte le altre voci, da Vana Kudrjás, interpretato con levità gioiosa da Paolo Antognetti; a Gláša, Sofya Tumanyan.
Juraj Valcuha ha diretto con raffinata sensibilità l'Orchestra del Teatro di San Carlo ed ha provveduto a sottolineare l'intimismo di Janáček: il suo preludio è flessuoso e scivola sulle note, è tutto suggerito appena dalla sua lettura ed in perfetta simbiosi con i cantanti fa carezzare le corde agli strumenti, vieppiu' le suggestive percussioni, ed il particolare suono “slavo” della celesta e del glockenspiel di stampo mahleriano. Struggente il coro finale diretto da Gea Garatti Ansini. Lunghi e concitati applausi per tutto il cast ed in particolare per le prime voci ed il direttore Valcuha hanno risuonato in un teatro pieno.