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Le Operette morali di Leopardi. La perenne infelicità umana. Parte prima
Dal 3 al 15 maggio 2011 è andata in scena al Teatro Argentina di Roma, a cura di Mario Martone, una rappresentazione scenica delle Operette morali di Giacomo Leopardi.
Si tratta di un testo (da Leopardi scritto tra il 1824 ed il 1832) che non appartiene al canone della letteratura teatrale, ma che Martone ha deciso di mettere in scena sulla scorta del suo interesse per la cultura dell’Italia dell’Ottocento, a cui ha dedicato film come Noi credevamo, tratto dall’omonimo romanzo di Anna Banti; significativa è anche L'opera segreta, spettacolo tratto dai testi di Anna Maria Ortese, in cui Martone dedica la parte finale al soggiorno napoletano di Leopardi.
In qualche modo Martone va a rintracciare le potenzialità e i limiti della scrittura teatrale italiana rintracciandola non solo nei grandi e spesso retorici classici come i drammi di Vittorio Alfieri e di Alessandro Manzoni, ma anche in un testo, come quello leopardiano, che, pur non concepito esplicitamente per il teatro, offre spunti per una trasposizione espressiva di tipo scenico, la quale, peraltro, giunge particolarmente opportuna nell’anno del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, dato che viene connessa implicitamente con le opere teatrali che hanno contribuito a cementare la coscienza nazionale.
Originariamente quest’opera venne concepita da Leopardi come una serie di dialoghi satirici che riproducessero alcuni modelli antichi: non tanto (o almeno non solo) i dialoghi filosofici di Platone quanto i dialoghetti di Luciano di Samosata. Ai paradigmi antichi si aggiungono poi anche alcune suggestioni moderne, come le parodie di Jonathan Swift o di Voltaire.
Spesso abbiamo poi a che fare con tecniche intenzionali di contraffazione dei modelli del passato: dalla trattatistica filosofica ellenistica (ad esempio nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco) al genere retorico dell’elogio fino all’arcaismo orientale e alla pubblicistica illuministica. Probabilmente, Leopardi non aveva l’ambizione di scrivere una tragedia, ma si pose ugualmente il problema della cosiddetta scrittura drammatica, al fine, per usare le sue stesse parole, “di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia cioè i vizi dei grandi, i principî fondamentali della calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie, le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie”.
Del resto, non bisogna dimenticare che il genere satirico nell’antichità era concepito come una composizione destinata in prima istanza alla scena, ossia alla forma teatrale, e la cui maggiore presa sulla realtà è correlata al suo essere recitata. In un’altra opera estremamente significativa nella sua critica quasi profetica ai costumi nazionali, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, il poeta di Recanati associa l’assenza di un teatro autenticamente nazionale a “quella della letteratura veramente nazionale e moderna”.
Pertanto, adattare il testo leopardiano alle esigenze sceniche è un’operazione che appare perfettamente lecita, anche perché permette di coniugare l’apparente arcaicità del linguaggio con artifici più moderni: come in Pirandello e in altri autori del Novecento, assistiamo spesso a una vertiginosa frammentazione dei punti di vista, assecondata dalla potenza creativa delle contraddizioni che caratterizzano il suo “sistema filosofico” e che si concretizzano in un tipo di ironia che ricorda quella dei romantici tedeschi suoi contemporanei (da Friedrich Schiller a Jean Paul).
Le Operette rappresentate da Martone sono ben 18 su 24 complessive: sono stati operati dei tagli nei testi, affinché i diciotto dialoghi potessero essere contenuti nella durata di oltre tre ore dello spettacolo. Martone si è particolarmente concentrato su alcune tematiche leopardiane, ossia sul rapporto dell’uomo con la storia e la natura, sul confronto tra i valori ereditati dal passato e la situazione presente; particolare rilievo assumono pure il valore delle illusioni e quella cosa “arcana e stupenda” che rappresenta l’esistenza umana, originata misteriosamente dal nulla (tematica, questa, su cui ha particolarmente richiamato l'attenzione il filosofo Emanuele Severino, in alcune interpretazioni leopardiane tanto suggestive quanto, talora, fuorvianti); la ricerca della felicità in rapporto alla perenne infelicità umana; la natura matrigna (è un’entità cieca e irrazionale a cui l’uomo non può mai rivolgersi sperando di ottenere qualcosa), il perenne oscillare della vita, come in Arthur Schopenhauer, tra dolore e noia (ma con una maggiore fiducia nel potere quasi salvifico della ragione, nonostante la derisione delle “magnifiche sorti e progressive” di cui parla ne La ginestra).
Il primo testo, La storia del genere umano, viene rappresentato partendo dallo spazio concluso della biblioteca che apparteneva al padre Monaldo (uno dei maestri misconosciuti del pensiero reazionario dell’Ottocento): del resto, è dalle pagine dei libri della ricchissima biblioteca paterna (molti dei quali, paradossalmente, appartenenti all’ambito culturale di quel razionalismo illuminista odiato dal padre e amato dal figlio, pur con tutte le riserve critiche) che prendono corpo e si animano i personaggi delle Operette morali, dagli dèi agli uomini mitologici, dai filosofi antichi ai navigatori moderni: lo stesso Leopardi nota che i testi antichi sono popolati da “personaggi allegorici, come la Ricchezza; le rane, le nubi, gli uccelli; le inverisimiglianze, le stravaganze, gli Dei, i miracoli...”.
Personaggi che spesso confluiscono nelle Operette morali, attivando quel rovesciamento comico (in base alla categoria del “ridicolo”) di argomenti seri, come la vita, la morte e l’angoscia, che possono così essere trattati con maggiore leggerezza. Quest’operetta, mirabilmente recitata da Maurizio Donadoni nelle vesti di Giove, gravita sulla critica alla modernità, di cui viene messa in rilievo l’effetto sulla vita umana, che viene abbandonata a un’estrema involuzione: la finale condizione dell’umanità sarà in realtà l’assenza di ogni umanità.
L’operetta mette in risalto il tema dell’infelicità umana: la storia dell’umanità appare come una serie di cicli con il ritorno a spirale di un unico evento: quello per cui il desiderio di felicità rimane perennemente inattuato. Tra citazioni lucreziane e riferimenti platonici, il mito si conclude con una duplice decisione di Giove: quella di mandare la Verità tra gli uomini, che renderà ancora più amara la loro vita, vanificando qualsiasi speranza consolatoria. E di contemperare questa missione con un’ulteriore deliberazione: quella dell’invio del Dio Cupido, un Amore figlio come quello platonico di Venere celeste, in grado di congiungere due cuori, “inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue”: è l’unico rimedio all'infelicità, benché passeggero, perché capace di far tornare l'uomo al tempo della fanciullezza: “rinverdisce l'infinita speranza, le belle e care immagini degli anni teneri”.
Il successivo Dialogo d’Ercole e d’Atlante (interpretati con tono buffo e toscaneggiante da Giovanni Ludeno e Renato Carpentieri), incentrato sul tema della decadenza e della morte dell’uomo, riprende vari miti, inscenando un dialogo tra il titano Atlante e l’eroe Ercole, che giocano a palla con il nostro pianeta: la Terra è ormai precipitata in una calma mortale, che rende gli uomini ben lontani da qualsiasi dominio sull’universo.
Significativa la battuta sul torpore che ormai avvolge l’umanità, pronunciata da Ercole: “Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti perché il mondo è caduto e niuno s'è mosso”.
Di sicuro effetto scenico è il successivo Dialogo della Terra e della Luna, dove le due attrici (Barbara Valmorin e Franca Penone) hanno il volto coperto con delle maschere che riproducono i due globi celesti: si tratta di una briosa e implacabile demistificazione di ogni ipotesi geocentrica e antropocentrica. Mentre la Terra crede che tutto l’universo sia modellato su sé stessa e sul genere umano, parlando un linguaggio intriso di superbia e di prosopopea, la Luna (“sua compagna di viaggio” e “amica del silenzio”), viceversa, sostiene di non soggiacere agli errori di quella che chiama la sua Signora:
“Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto”. Per la Luna, i mondi sono tutti diversi tra loro, cosicché sarebbe vano cercare un punto di contatto tra di essi, se si eccettua la condizione di infelicità profonda che potrebbe accomunare ipotetici esseri extraterrestri con l’uomo stesso, il Weltschmerz (dolore universale) di cui parlavano i romantici tedeschi.