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Le Operette morali di Leopardi. La perenne infelicità umana. Parte terza
La seconda parte dello spettacolo si apre con La scommessa di Prometeo: non si tratta solamente di una rilettura del mito antico (anche secondo l’interpretazione contenuta nel Protagora di Platone) o di una ripresa del dialogo Ermotino di Luciano di Samosata, dove pure assistiamo al concorso di dèi inventori: qui il mito viene riutilizzato nella direzione di una critica radicale alla natura umana.
Il genere umano, che si trovi nello stato di natura o che sia abituato alla civilizzazione della vita associata, oscilla in un perenne e apparente equilibrio tra perfezione e imperfezione, anche se il pessimismo leopardiano tende piuttosto ad accreditare la seconda caratteristica come connaturata all’uomo, in contrasto con ogni superbia religiosa ed umanistica.
Il dialogo comincia con la finzione di una sorta di concorso a premi bandito nel luogo immaginario di Ipernéfelo, allo scopo di individuare la più utile invenzione umana. Vi partecipano le divinità più importanti, ma il terzetto che si dovrebbe spartire l’ambito riconoscimento è costituito da Bacco, per l'invenzione del vino, Minerva, per l'olio (usato sia in cucina, sia per massaggiare e profumare i corpi), e Vulcano, per l'invenzione della pentola da cucina.
Paradossalmente, i vincitori rinunceranno al premio, mentre ne verrà escluso colui che più di tutti vi ambiva, ossia il titano Prometeo: questi, convinto che la migliore invenzione sia lo stampo con cui aveva forgiato il primo essere umano, persuade Momo, dio dello scherno e della calunnia (e che esercitava un ruolo significativo anche nello Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno), a seguirlo sulla terra, dove cercherà di provare la sua tesi. Ma si troveranno di fronte a tre situazioni raccapriccianti: un uomo definito “selvaggio” che si dedica a pratiche antropofaghe sui propri figli (un livello di imbarbarimento che neppure Cormac McCarthy in The Road arriverà a ipotizzare), una vedova che viene bruciata viva in memoria del marito; un uomo facoltoso che si suicida, uccidendo al contempo gli altri membri della famiglia per semplice taedium vitae (in contrasto con i doveri verso sé stessi di cui parla Immanuel Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi).
A questo punto, Prometeo rinuncia alla sua scommessa, benché si arrivi a una sorta di conclusione paradossale: Prometeo avanza, in conformità con Leibniz, la tesi che il mondo sia assolutamente perfetto, ma Momo sostiene che potrà accettare questa tesi se e solo se essa verrà contemperata dall’asserzione che il mondo contenga anche tutti i mali possibili, come sostiene Plotino nel terzo libro della II Enneade: “perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili”.
Questa rilettura del mito appartiene, come ha giustamente rilevato Gaspare Polizzi nella sua tesi di dottorato dedicata all’antropologia negativa di Leopardi, a una sorta di tradizione prometeica “minore”, ossia alla serie di interpretazioni “in chiave satirica e critica della tradizione religiosa”, in cui “il Titano irride gli dei e contrappone a essi gli uomini nel loro processo di emancipazione dalle credenze e dalle superstizioni”.
La posizione quasi anti-umanistica espressa in quest’Operetta ci permette addirittura di avvicinare Leopardi al filosofo tedesco Günther Anders, per il quale “la nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto in avanti, con la cattiva coscienza di esseri antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici” (Der Mensch ist antiquiert, tr. it. L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della Terza Rivoluzione industriale). Del resto, come ebbe a osservare Nietzsche in un frammento postumo del 1874, “nel creare gli uomini, Prometeo ha commesso l’errore di separare nel tempo la forza e l’esperienza dell’uomo: la saggezza ha sempre una certa debolezza senile”.
Sempre Polizzi ha ricordato come il mito di Prometeo nelle sue varie declinazioni romantiche, soprattutto inglesi e tedesche, abbia avuto una particolare fioritura mentre Leopardi scriveva la sua Operetta (dal Prometheus incompiuto di Goethe al Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley fino alla presenza di Prometeo nei Dialoghi degli dèi di Christoph Martin Wieland, autore molto caro a Leopardi: “Anche la prorompente vocazione prometeica e titanica della cultura tedesca e inglese tra fine Settecento e inizio Ottocento presenta un intreccio di motivi non lineare, nel quale è riscontrabile una linea antiprometeica che si esprime nella condanna della concezione progressiva della modernità e nell’irrisione della presunta perfettibilità della civiltà umana".
E come non ricordare che negli stessi anni Mary Shelley, scrivendo Frankenstein or the modern Prometheus (1818), sviluppò in termini assolutamente perturbanti il tema del titano ribelle e sconfitto?
Particolarmente efficace risulta poi la sceneggiatura del Dialogo della Moda e della Morte, in cui le due figure appaiono complementari, in quanto entrambe figlie della Caducità: i due esseri allegorici semidivini alla fine stringeranno un patto per favorire quelle consuetudini che accrescono la fama del periodo in cui Leopardi scrive come "il secolo della morte".
Morte peraltro che potrebbe sembrare la soluzione estrema alle sofferenze umane: è nel Dialogo di Plotino e di Porfirio che quest'ipotesi viene affrontata in una discussione sul suicidio, in cui i due filosofi prendono posizione, il primo contro il suicidio, il secondo a favore (tema peraltro affrontato già da Leopardi nelle poesie L'ultimo canto di Saffo e Bruto minore). La conclusione del dialogo è aporetica, a differenza di quanto accade in autori come Arthur Schopenhauer, nel quale la condanna del suicidio è più netta. Semmai la posizione leopardiana potrebbe richiamare quella di David Hume, il quale, nell'opera Sul suicidio, arriva a formulare una serie di considerazioni che mostrano l'assurdità di considerare il suicidio come un affronto alle divinità.
E a suggello ideale di questa rappresentazione teatrale di Leopardi non si può che citare il sinistro Cantico del gallo silvestre, rappresentato sulla scena con un'atmosfera dark a tinte cupamente gotiche.
Si tratta di una sofferta e tetra meditazione sulla fine dell'universo e sull'ineluttabilità di questo evento, per cui ogni parte di esso si affretta indefettibilmente e infaticabilmente verso la morte. Per citare estesamente le sue stesse parole: "Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi".