Supporta Gothic Network
The Road di Cormac McCarthy. Come fagocitare l'Apocalisse. Prima parte
Dopo l’uscita del film diretto da John Hillcoat, la casa editrice Einaudi ha deciso di ristampare nella collana Super Einaudi Tascabili La strada (The Road) di Cormac McCarthy. Si tratta, a una prima lettura, di un romanzo inquadrabile nella serie della narrativa post-apocalittica, incentrata sulle conseguenze di un qualche cataclisma, naturale o artificiale, che ha devastato il mondo, e sull’umanità che ancora lo popola.
È un filone abbastanza recente (ma il prototipo è probabilmente un breve romanzo di Jules Verne, L'Éternel Adam), benché gli uomini si siano sempre lasciati affascinare dai racconti che annunciano la loro totale distruzione, anche perché la scienza e la filosofia non sono ancora riuscite a trovare un surrogato della mitologia della fine, come ha osservato un altro grandissimo scrittore contemporaneo, Ian McEwan:
“Ogni racconto ha bisogno di una fine, oltre che di un inizio. E il racconto dell'umanità si alimenta da sempre al mito di un'apocalisse gloriosa. In realtà nessuno verrà a salvarci, dovremo pensarci da soli. Magari con l'invincibile impulso alla curiosità, vero marchio dell'indipendenza mentale (curiosity, the hallmark of mental freedom)” (Blues della fine del mondo).
Il libro e il film (interpretato splendidamente da Viggo Mortensen e sinistramente corredato della cupa colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, maestri delle musiche tenebrose e sepolcrali) si inseriscono, in apparenza, nella serie delle descrizioni della condizione post-apocalittica di un'umanità desolatissima in un futuro indeterminato ma vicino a noi. Dopo una catastrofe imprecisata, forse nucleare, forse ecologica o vulcanica, il mondo è precipitato in uno stato di assoluta desolazione, dove persino i colori sono venuti meno.
“Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo” (p. 3. “Nights dark beyond darkness and the days more gray each one than what had gone before. Like the onset of some cold glaucoma dimming away the world”).
L’unico colore dominante è il grigio, che pervade ogni aspetto della realtà. Siamo di fronte a “un mondo incolore di fil di ferro e carta crespa” (p. 90. “A colorless world of wire and crepe”). I colori ormai sono confinati nei sogni (p. 16: “Quanto colore invece nei sogni” [“And the dreams so rich in color”]).
Immagini straordinariamente evocative, che richiamano alla memoria alcuni versi baudelairiani:
"C'est un univers morne à l'horizon plombé,/Où nagent dans la nuit l'horreur et le blasphème;/
Un soleil sans chaleur plane au-dessus six mois,/Et les six autres mois la nuit couvre la terre;/C'est un pays plus nu que la terre polaire/— Ni bêtes, ni ruisseaux, ni verdure, ni bois!
Or il n'est pas d'horreur au monde qui surpasse/La froide cruauté de ce soleil de glace/Et cette immense nuit semblable au vieux Chaos". ("È un universo cupo dal plumbeo orizzonte, dove nella notte/ vagano l'orrore e la bestemmia;/un sole senza calore si libra in alto per sei mesi, e per gli/altri sei mesi la notte copre la terra; è un paese più nudo/ della zona polare: - né animali, né ruscelli, né vegetazione nei boschi!/No, non c'è orrore al mondo che superi la gelida crudezza/d'un tale sole di ghiaccio, e tale immensa morte-simile/all'antico Caos").
(Charles Baudelaire, "De profundis clamavi", da Les fleurs du mal, traduzione di Giorgio Caproni).
O la descrizione delle conseguenze della peste che colpì l'Italia alla fine della guerra greco-gotica (VI sec. d. C.) nella descrizione dello storico longobardo Paolo Diacono:
"Videres seculum in antiquum redactum silentium: nulla vox in rure, nullus pastorum sibilus, nullae insidiae bestiarum in pecudibus, nulla damna in domesticis volucribus" ("Potevi vedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini: nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastore, nessuna insidia di fiere tra il bestiame, nessun danno per i domestici uccelli").
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 4).
I due protagonisti, un padre e un figlio, non vengono mai designati con il nome proprio; al libro è sottesa una particolare filosofia del linguaggio, per cui la designazione precisa degli oggetti tende a scomparire come scompaiono gli oggetti stessi. Un esempio è a p. 22: “Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria” [“Old and troubling issues resolved into nothingness and night. The last instance of a thing takes the class with it”]).
E presto ci accorgeremo che, in effetti, l’eventuale conoscenza dei nomi dei due personaggi sarebbe irrilevante per comprenderne la personalità. Il libro è scritto con uno stile in apparenza “minimale”, in cui però un periodare breve, secco e sincopato e una divisione non in capitoli ma in brevi capoversi riescono a dipingere in modo straordinariamente penetrante ogni aspetto degli uomini e del mondo.
Per certi versi è come se i due protagonisti fossero delle pure funzioni “attanziali”, per usare la terminologia di Algirdas Greimas (come dice Umberto Eco, il modello attanziale è “una sorta di scheletro narrativo che rappresenta la struttura profonda di ogni processo semiotico”: il figlio potrebbe ricoprire il ruolo del Soggetto e il padre quello dell’Adiuvante), con uno spessore psicologico appena accennato.
In realtà, il lettore avveduto scoprirà alla fine del romanzo come la psicologia dei personaggi tragga linfa ed energia dalle minuziose descrizioni degli ambienti esterni e interni e dai flashbacks memoriali che spesso costituiscono l’unico filo in grado di garantire un minimo di stabilità alla soggettività lacerata dei due protagonisti.
Abbiamo detto i “due protagonisti”, perché sarebbe difficile determinare chi dei due abbia maggiore importanza. Il figlio è quasi “postumo” al mondo quale lo ha conosciuto il padre, essendo venuto alla luce dopo la catastrofe, nell’età in cui il mondo era finito (la madre non ha retto e ha deciso di suicidarsi o di lasciarsi morire, preda di una delle tante insidie del mondo esterno). Il padre ha come unico obiettivo la sopravvivenza del figlio, che dovrà coincidere il più a lungo possibile con la sua stessa esistenza, almeno finché il figlio non avrà le forze e l’abilità di cavarsela da solo.
All’obiettivo indeterminato (la sopravvivenza il più possibile prolungata) fa da pendant uno scopo più determinato, ossia il raggiungimento di una meta geografica, verosimilmente al Sud, dove forse le condizioni di vita dovrebbero essere più accettabili, con il mare e un freddo attenuato. Il cammino, periglioso e ostacolato dalle intemperie (neve, pioggia, gelo), presenta come problema fondamentale quello dell’alimentazione: l’imprecisata catastrofe ha desertificato la terra, al punto che, a parte gli uomini e qualche isolato esemplare di animali come i cani, non sono rimasti altri esseri viventi: non ci sono più piante e frutti commestibili, ogni tanto compare qualche uccello, ma in realtà sono rarissimi.
Questo particolare potrebbe far pensare in effetti a una singolare catastrofe nucleare che abbia operato selettivamente, risparmiando una piccola parte dell’umanità, ma impedendo la sopravvivenza di altre specie. L’unico indizio a tal proposito, però, è un passo in cui si accenna a maschere antigas e tute antiradiazioni indossate da altri uomini (p. 47. In realtà il testo inglese è più generico: “Some of them wearing canister masks. One in a biohazard suit”: si tratta di una generica protezione, soprattutto contro agenti virali e batteriologici).
In realtà, si tratterebbe di un fraintendimento se concepissimo questo romanzo come una narrazione fantascientifica preoccupata di focalizzare le cause della catastrofe e di spiegarle dal punto di vista della scienza. L’eziologia dell’apocalisse non interessa McCarthy, e anche il lettore non dovrebbe interrogarsi più di tanto sui motivi che hanno portato alla situazione in cui l’umanità è sprofondata nell’abisso. In fondo il romanzo è costruito integralmente sulla descrizione della situazione in atto, e non sugli antefatti o sulle possibili cause. Ecco perché il romanzo, e il film che ne è stato tratto, differiscono in modo così radicale da narrazioni convenzionalmente post-apocalittiche, come I Am Legend di Richard Matheson o Children of Men di P. D. James.
Si diceva che il problema fondamentale intorno a cui si dipanano tutti gli snodi del romanzo è quello di sopravvivere e di cercare cibo. Si tratta di un bisogno primario ed essenziale, che i due protagonisti tentano di soddisfare senza perdere quel barlume di umanità che farà spesso dire al padre che essi stanno “portando il fuoco”. Ma, a mano a mano che avanzano le pagine del libro, ci accorgiamo che quasi tutto il resto dell’umanità ha varcato le soglie della distinzione tra bene e male e si è “convertita” al cannibalismo. La terra è diventata insicura perché infestata da tribù di antropofagi, che sono regrediti a una sorta di radicalizzazione estrema dello stato di natura hobbesiano.
Scrive infatti il filosofo Thomas Hobbes nel Leviathan: “Perciò tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria ingegnosità. In tali condizioni, non vi è posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto; e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni, né strumenti per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società; e ciò che è peggio, v'è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve” (Thomas Hobbes, Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 102).
(“Whatsoever therefore is consequent to a time of Warre, where every man is Enemy to every man, the same is consequent to the time wherein men live without other security, than what their own strength, and their own inventions shall furnish them withall. In such conditions, there is no place for Industry; because the fruit thereof is uncertain: and consequently no Culture of the Earth; no Navigation, nor use of the commodities that may be imported by Sea; no commodious Building; no Instruments of moving and removing such things as require much force; no Knowledge of the face of the Earth; no account of Time; no Arts; no Letters; no Society; and which is worst of all, continual feare, and danger of violent death; and the life of man, solitary, poor, nasty, brutish, and short.” - Leviathan, Chapter 13 - Of The Naturall Condition Of Mankind, As Concerning Their Felicity, And Misery).
Ma la prospettiva di McCarthy, pur prendendo chiaramente lo spunto da descrizioni di questo genere, è ancora più radicale: potremmo dire che tratta di uno stato di “post natura”, in cui nessuna autorità superiore potrà intervenire a restaurare un simulacro di ordine.
Peraltro, che la fame sia un bisogno assolutamente primario, era chiaro anche ad altri filosofi. Ad esempio G. W. F. Hegel, quando dice, nelle Lezioni di filosofia del diritto:
“L'uomo che muore di fame ha il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro; egli viola la proprietà di un altro solo in un contenuto limitato. Nel diritto del bisogno estremo (Notrecht) è inteso che non violi il diritto dell'altro in quanto diritto: l'interesse si rivolge solo a questo pezzettino di pane; egli non tratta l'altro come persona priva di diritti”.
E sul tema della fame anche Sigmund Freud ha a lungo discettato, equiparandolo per certi versi alla libido (per non parlare di un epigono del freudismo e del positivismo ottocentesco, il filosofo siciliano Gino Raya, autore di una teoria, il famismo, basata sull’impulso fagico come primum movens biologico - ovvero l'impulso all'alimentazione alla base di qualsiasi azione e reazione).
Il padre è costretto a uccidere alcuni aggressori reali o potenziali o a sfuggire per miracolo ad orde di esseri intenti solo a perpetuare la loro sopravvivenza (esemplari a questo proposito la scena della casa degli orrori, dove nei sotterranei sono tenuti prigionieri esseri umani che devono fungere da carne da macello, pp. 81-86; o la tristissima vicenda, assente nella trasposizione cinematografica, del neonato divorato subito dopo il parto i cui resti vengono lasciati bruciare su uno spiedo, p. 151). E deve conservare una pistola da lasciare al figlio perché si suicidi qualora cada in mano ai cannibali, a cui sfuggono peraltro varie volte.
L’assenza quasi totale di speranza che traspare da molte pagine richiama passi poetici, come quello di George Byron (“The bright sun was extinguished, and the stars/Did wander darkling in the eternal space,/Rayless, and pathless, and the icy earth/Swung blind and blackening in the moonless air”, Darkness, 1816 – "Il sole radioso si era spento, e le stelle/vagavano oscurandosi nello spazio eterno,/disperse e prive di raggi, e la terra coperta di ghiacci/intenebrandosi ruotava cieca nell’aria senza luce" – L’oscurità); o le liriche dei Pink Floyd in A Momentary Lapse of Reason ("The sweet smell of a great sorrow lies over the land/Plumes of smoke rise and merge into the leaden sky:/A man lies and dreams of green fields and rivers,/But awakes to a morning with no reason for waking", Sorrow - "Il dolce profumo di un grande dolore sovrasta la terra/pennacchi di fumo si innalzano e si fondono nel cielo plumbeo:/Un uomo è disteso e sogna di prati verdi e fiumi,/Ma si sveglia di contro a un mattino con nessun motivo per alzarsi", Sorrow).
Di grande rilievo è il fatto che solo i sogni sembrano rimasti a rievocare il passato felice. In realtà, i sogni, ripete varie volte il padre, usurpano il mondo reale e i sogni belli non sono un buon segno.
Il libro si conclude con la morte del padre e con un apparente happy ending. I due protagonisti riescono a raggiungere la costa, ma la malattia imprecisata di cui soffre il padre (probabilmente una forma di tubercolosi acuta) lo porta rapidamente alla morte. Le sue ultime parole raccomandano di tener fermo ai valori di umanità a cui si sono costantemente ispirati. Dopo la morte del padre, il figlio viene avvicinato da una famiglia composta da padre, madre, due figli e un cane, i quali propongono al figlio di venire adottato.
La famiglia sembra appartenere a quelli che vengono chiamati "i buoni" (the good guys), diversi dall’umanità decaduta e ridotta all’antropofagia. Tuttavia, a questo apparente happy ending potrebbero essere contrapposti tre finali alternativi, che esamineremo nella seconda parte del nostro articolo.