Ostia antica. Fedra tra Euripide e gli stoici

Articolo di: 
Teo Orlando
Ostia antica

Il 14 luglio 2015 è andata in scena al Teatro romano di Ostia antica la Fedra di Seneca, tragedia romana ispirata  all’Ippolito portatore di corona (ππόλυτος στεφανοφόρος/Hippólytos stephanophóros) e all’Ippolito velato (ππόλυτος καλυπτόμενος/Hippólytos Kalyptómenos) di Euripide, per la regia di Silvio Giordani, con Caterina Costantini nel ruolo di Fedra, Lorenza Guerrieri in quello della nutrice, Danilo Celli a interpretare Ippolito e Carlo Ettorre Teseo .

Fedra viene qui considerata come una nobildonna dell’aristocrazia cretese, ancora legata alla civiltà ctonia, dove domina il rito tragico del sacrificio umano e dove il fato della sua famiglia la trascina nella rovina: in quanto figlia di Minosse e Pasifae, è sorella di Arianna ma anche sorellastra di Asterione, il mostro mezzo uomo e mezzo toro, noto anche come Minotauro. In fondo Fedra (letteralmente "la splendente") appare come una “barbara” rispetto al mondo greco, e nel mito emerge il contrasto tra la società primitiva cretese, in cui dominano ancora i riti magici e sciamanici, e la società greco-micenea, ordinata e gerarchica, rappresentata dall’eroe Teseo. È grazie alla cultura espressa dalla nuova società che le forze della trasgressione potranno regredire e perdere la loro energia travolgente. Ma Fedra come personaggio-simbolo va al di là del contesto storico in cui la tragedia è ambientata, divenendo l’emblema della passione amorosa legata al mondo femminile, che a causa delle costrizioni sociali non poteva esprimersi liberamente. Nella versione di Seneca, Fedra appare colpevole in modo duplice, in quanto adultera e in quanto bruciata da una passione inestinguibile, fino ad assumere su di sé la stessa responsabilità della morte, vista come unico riscatto possibile.

Del resto, il mito di Fedra (figlia della Legge, incarnata nel padre, il saggio e giusto re Minosse, e del Desiderio, simbolizzato dalla madre Pasifae, che accoppiandosi con un toro bianco in seguito generò il Minotauro) unisce personaggi divini e personaggi umani che sono in qualche modo semidivini. Come infatti ha ben messo in luce il grande antropologo James Frazer in The Golden Bough (Il ramo d’oro), la rivalità di Artemide e Fedra per l’affetto di Ippolito sembra riprodurre, sotto diversi nomi, quella di Afrodite e di Proserpina per l’amore di Adone. Fedra alla fine risulta essere una sorta di duplicato di Afrodite, mentre nella storia della tragica morte di Ippolito assistiamo alla vicenda di un giovane mortale e bello che paga con la vita il breve rapimento di un amore divino.

La ricchezza concettuale del testo di Seneca non è casuale, perché i grandi poeti tragici hanno sempre attratto l’attenzione dei filosofi, i quali hanno riscontrato nelle loro opere la concretizzazione di temi universali, come si può anche constatare nei drammi di Shakespeare.

In Euripide e Seneca i personaggi mitologici si trasfigurano in eroi quotidiani, sicché la tragedia appare particolarmente ancorata alle mura domestiche, piuttosto che alla scenografia della natura: circostanza particolarmente evidenziata nello spettacolo di Ostia antica, dove l’apparato di scena risulta minimale, mentre appaiono ben in evidenza le recitazioni dei singoli attori. In particolare, Caterina Costantini ha dato del personaggio Fedra una versione contratta e controllata, in cui il pathos si effonde senza toni esacerbati, in questo più vicina allo spirito di Seneca che a quello greco. Molto convincente anche l'interpretazione di Danilo Celli, che si è ben immedesimato nel personaggio Ippolito e nelle sue debolezze, oscurate dalla protagonista femminile.

La tragedia è ambientata a Trezene, dove Teseo, padre di Ippolito e re di Atene, si trova in esilio in quanto deve scontare la pena per l'omicidio dei figli di Pallante.

La dea Afrodite nel frattempo decide di consumare una sua vendetta ai danni di Ippolito perché il figlio di Teseo appare dedito alla caccia e al culto di Artemide, che è la dea sua rivale. Per attuare il suo piano, stimola la matrigna Fedra affinché si accenda di una passione malsana per il figliastro. Solo la nutrice riesce a carpire a Fedra questo morboso segreto, preoccupata per la condizione di sfinimento e di depressione della donna. Le consiglia allora di assumere un filtro magico, cercando poi un colloquio chiarificatore con Ippolito, che per tutta risposta la insulta. Dopo essere venuta a conoscenza dell'intera vicenda, medita il suicidio. Ippolito a quel punto, turbato e preso da una sorta di furore antifemminile, dichiara di non voler rimanere sotto il tetto della matrigna, in assenza del padre.

Fedra dà poi attuazione al suo insano proposito, togliendosi la vita e lasciando a Teseo una sorta di piccolo testamento in cui accusa Ippolito di averla violentata. Teseo a questo punto cerca di impetrare la vendetta di Poseidone a cui chiede di annichilire Ippolito, che viene comunque bandito da Atene, nonostante egli protesti la sua innocenza. Dopo essersi allontananato dalla città ed aver chiesto a Zeus di far trionfare la verità, viene travolto dai cavalli atterriti da un mostro marino inviato da Poseidone. Viene riportato indietro da una lettiga e prima di morire perdona il padre.

Come ha osservato Ettore Paratore, per Seneca il nocciolo della tragedia non è costituito né dallo stimolo a reintegrare la scissione tra cielo e terra, tra persona umana e legge divina (come in Eschilo e Sofocle), né dalla constatazione dell’impossibilità di tale reintegro (come in Euripide), bensì dal fatto che le passioni dipendano esclusivamente dalla psiche umana, come aveva messo in evidenza l’etica stoica, di cui Seneca è uno dei massimi teorici.

Gli stoici credevano che la ragione e le leggi della natura debbano sempre governare il comportamento umano. Nel compiere la scelta consapevole di perseguire la sua passione peccaminosa per il figliastro, Fedra turba le leggi della natura a un livello tale che,  secondo la Weltanschauung stoica di Seneca, solo la sua morte può ristabilire l'ordine cosmico. Allo stesso modo, Ippolito avverte che la lussuria di Fedra lo ha corrotto sicché egli non vuole più vivere in un mondo non più governato dalla legge morale.

Ippolito arriva quindi a negare i vincoli sociali isolandosi e rendendo la sua esistenza morale instabile, soprattutto a a causa delle avances innaturali della matrigna. Non è privo di significato, peraltro, il fatto che le passioni assumano una dimensione sociale. Come ha rilevato Francesco Orlando (riferendosi alla Phèdre di Jean Racine, ma l’osservazione si può applicare anche alla Phaedra di Seneca), “lo scandalo coinvolge immediatamente nel processo criminale intimo, nel ritorno del represso [espressione freudiana: die Wiederkehr des Verdrängten], gli altri; e il coinvolgimento degli altri a sua volta incoraggia e rende irreversibile il processo intimo”.

La dimensione sociale del dramma è anzi ancora più evidente nella tragedia antica rispetto a modelli moderni, come l’Otello di William Shakespeare o il Tristano e Isotta di Richard Wagner. Si tratta dell’effetto di quella “civiltà della vergogna”, solo gradualmente sostituita dalla “civiltà della colpa” (Shame-Culture vs Guilt-Culture), su cui ha messo giustamente l’accento il grande filologo Eric Dodds (The Greeks and the Irrational, 1951). E più di tutte sono le donne che subiscono non solo i colpi avversi del fato, ma anche le azioni perfide degli altri esseri umani. 

Pubblicato in: 
GN35 Anno VII 23 luglio 2015
Scheda
Titolo completo: 

Teatro Romano di Ostia Antica

14 luglio 2015
FEDRA di Lucio Anneo Seneca
con Caterina COSTANTINI Fedra
Lorenza GUERRIERI Nutrice
Danilo CELLI Ippolito
Carlo ETTORRE Teseo
Vita ROSATI messaggero
Giulio CLERICI corifeo

regia di Silvio GIORDANI