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Palaexpo. La creativa "evasione" ungherese tra '60 e '70
Cosa può fare un artista, se non può affermare alla luce del sole la propria creatività? Anche in una dittatura che punta all’abolizione della personalità e della libertà di pensiero, si possono comunque adottare delle tattiche per sfuggire ai controlli della censura. È questo che emerge dalla mostra “Tecniche d’evasione. Strategie sovversive e derisione del potere nell'avanguardia ungherese degli anni '60 e '70”, ospitata nel Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 6 gennaio 2020.
Parliamo in questo caso di un’avanguardia artistica, che non si limita a contrastare la tradizione accademica, proponendo nuovi linguaggi, ma sembra portare avanti una forma di lotta clandestina contro il potere, come si legge nel libro “Tecniche d’evasione”, a cura di Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi, (edizioni Cambia una virgola, Roma, 2019): “Tra i migliori e più autentici episodi dell’arte contemporanea si contano quelli accaduti in clandestinità, nel retro degli apparati, di nascosto da istituzioni e comitati di amministrazione e la cui ricostruzione e testimonianza è già impresa di lotta”.
In effetti, a giudicare dalle opere in mostra (più di 90 tra fotografie, sculture, collages, immagini di interventi urbani, operazioni concettuali), bisogna riconoscere che gli artisti ungheresi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso hanno sviluppato con intelligenza, ironia e feroce sarcasmo degli escamotages per esprimere il loro dissenso, il loro non adeguamento al potere politico. Emblematica è la foto del 1973 di Sándor Pinczehelyi, scelta come immagine guida della mostra, tratta da una sequenza di tre, intitolata Sickle and Hammer, che sembra dimostrare lo strangolamento esercitato sull’uomo dal regime comunista.
Fino al 6 gennaio 2020 possiamo visionare i lavori realizzati da Endre Tót, Judit Kele, Bálint Szombathy, András Baranyay, TiborCsiky, Katalin Ladik, László Lakner, Dóra Maurer e altri. “Questi artisti ungheresi - ha dichiarato Giuseppe Garrera - hanno avuto il merito di non dimenticarsi del potere, soprattutto in quelle forme in cui il potere risulta apparentemente invisibile, paternalista, buono, comprensivo. La mostra cerca in un certo senso di sottolineare, di analizzare in quale maniera un artista deve mantenere sveglia la coscienza degli inganni e delle persuasioni del potere”. Il percorso narrativo si snoda in 6 sezioni testimoniando una protesta e un’avventura artistica, con tecniche di fuga e aggiramento dei poteri in un sistema che vuole “tutti uguali e ugualmente felici”.
In un regime politico, indipendentemente dal colore, la malinconia, la tristezza, la depressione sono sentimenti da evitare, perché esprimono la mancanza di qualcosa di non ben definito, l’aspirazione dell’anima a una pienezza irraggiungibile. Ed è per questo che nella sezione “Ritratto d’artista”, troviamo anche la tipologia dell’artista malinconico, inviso al potere. Sono esemplari, tra gli altri, gli autoritratti malinconici di András Baranyay del 1970, Self-portrait I e Self-portrait II, dove l’artista tende fortemente anche alla sparizione, cioè ad essere di sostanza immateriale, diafano, come un fantasma, per il mancato riconoscimento pubblico del suo statuto di artista. Istvan Gellér giunge a raffigurarsi, invece, come il Cristo morto di Mantegna, a significare la morte civile di chi non può esprimere pienamente se stesso.
Altre volte ci si raffigura come idioti, scemi, folli, così da non incorrere nella censura, ma riuscendo comunque a scandalizzare i benpensanti. Troviamo, tra le altre cose, l'autoritratto Promote, Tolerate, Ban (1980) di Károly Halász, in cui l’artista si mostra indecoroso, idiota e offensivo nei confronti di tutti i valori seri e del decoro della mascolinità. Particolarmente interessanti appaiono le fotografie relative a performances di artiste donne. In una società patriarcale, fortemente maschilista, già solo il presentarsi in pubblico come artiste, o come poetesse, è segno di scandalo. Katalin Ladik nella serie Poemin (1978) rappresenta e simula azioni scandalose e inaccettabili per la società in cui vive, come quello di fare uno spogliarello, ma rimanendo in calzamaglia nera, o quello di farsi la barba come un uomo, o anche mettendosi in vetrina, sotto vetro, secondo i desideri degli sguardi e dei ruoli attribuiti alle donne dal mondo.
Nel Museum of Fine Arts di Budapest Judit Kele esegue nel 1979 la performance intitolata I am a Work of Art. L'artista passa tre giorni seduta e a vivere nello spazio del museo come una scultura vivente, al posto di un dipinto che era stato tolto. Il museo è simbolicamente equiparato a un carcere, perché le è accanto un vigilante in divisa, a esprimere il controllo da parte del potere. E si avverte il disagio dell’uomo, perché lei è fuori posto, non è a casa sua come invece dovrebbe essere. Nella foto intitolata Textile without textile (1979) la stessa Judit Kele si raffigura distesa nuda su un letto di contenimento, come se si trovasse in una cella di manicomio o in prigione, ma il letto non è altro che un vecchio telaio, strumento simbolo della tradizione secolare di asservimento della donna al lavoro domestico.
In un’epoca ancora senza computer, rientrano tra le azioni clandestine quelle della “mail art”, ovvero far viaggiare cartoline e spacci in libertà per i cieli d’Europa, attraverso la posta e sotto il naso dei controlli e della censura; un’altra forma di protesta è l'uso di scritte sui muri o sulla neve, tempestivamente cancellate dagli addetti al controllo o ricoperte dall’inesorabilità del tempo, ma documentate in mostra da fotografie. Il rintracciamento, la raccolta e la messa in salvo di documenti, foto e materiali clandestini ed effimeri, che ha permesso la ricostruzione di questa protesta artistica si deve al Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art di Budapest. Senza il Museo Ludwig e l’operato di coraggiosi collezionisti privati, la storia dell’avanguardia ungherese sarebbe andata dispersa o ricordata unicamente come leggenda.