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Palazzo Barberini. Caravaggio, Artemisia e la virtuosa Giuditta
In occasione settant’anni dalla riscoperta e a cinquanta dall’acquisizione da parte dello Stato Italiano del dipinto, Giuditta che decapita Oloferne, di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio dal suo luogo di origine, le Gallerie Nazionali di Arte Antica propongono fino 27 marzo 2022 la mostra Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento, a cura di Maria Cristina Terzaghi.
L’esposizione è allestita nello spazio mostre del pian terreno di Palazzo Barberini, la disposizione dei dipinti, l’allestimento, l’illuminazione e i pannelli esplicativi permettono un’ottima fruizione delle 31 opere provenienti da vari musei: la Galleria Corsini e Galleria Palatina di Firenze; il Museo del Prado e il Museo Thyssen di Madrid; le Gallerie d’Italia Palazzo Zevallos Stigliano, il Museo di Capodimonte di Napoli; la Galleria Borghese di Roma; il Kunsthistorisches Museum di Vienna; il Museo di Oslo.
L’idea che ha guidato Maria Cristina Terzaghi nell’accurata scelta delle opere, è di mettere a confronto le diverse interpretazioni dell’iconografia di Giuditta che uccide Oloferne, quella innovativa e dirompente del Caravaggio, che influenzò i suoi contemporanei, raffrontata con quella Artemisia Gentileschi che, pure nel solco del Merisi, ne diede una diversa visione che ispirò a sua volta altri artisti. La mostra è articolata in quattro sezioni la curatrice, nell’introdurre la prima Giuditta tra maniera e natura, ha evidenziato come nel Rinascimento gli artisti preferirono dipingere la fase successiva all’evento cruento a differenza del periodo precedente in cui l’uccisione di Oloferne era rappresentata.
In questa sezione spicca l’olio Giuditta e Oloferne, (1577-1578 circa) firmato da Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1518 – 1594) con l’ausilio della bottega, un prestito prestigioso proveniente dal Museo Nacional del Prado di Madrid. La scena è teatrale, ricca di preziosi dettagli tra cui un paesaggio sullo sfondo che indica come si stia avvicinando l’alba e le donne, rappresentate a figura intera, si affrettino, Abra sta per prendere e nascondere la testa di Oloferne mentre Giuditta sta comprendo il corpo.
Nella tradizione è anche la tela di Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614) che si ispira al fiammingo Bartholomäus Spranger, coglie Giuditta determinata e affascinante mentre consegna la testa all’ancella. Diversamente in Pierfrancesco Foschi (Firenze, 1502-1567) Giuditta decapita Oloferne è un interessante antecedente in quanto descrive la determinazione della donna che, raffigurata di tre quarti, con una mano alza la scimitarra con l’altra tiene per i capelli la vittima che ha un solco rosso a indicare la decapitazione. La scheda dell’opera ricorda i precedenti a cui si è ispirato il pittore la Giuditta di Donatello e il Noè ebbro di Michelangelo Buonarroti della Cappella Sistina.
Nella seconda sezione, La Giuditta di Caravaggio e i suoi interpreti, campeggia il grande protagonista della mostra il quadro, Giuditta decapita Oloferne, fu dipinto nel 1599 da Caravaggio per il banchiere ligure Ottavio Costa, che non volle mostrarlo perché temeva che le eventuali copie diminuissero il valore del dipinto, alla sua morte nel testamento proibì di venderla. L’opera non fu mai alienata, rimase a Roma fino a metà Ottocento, quando divenne di proprietà agli antenati di Vincenzo Coppi. Il 21 aprile 1951 fu allestita a Palazzo Reale a Milano da Roberto Longhi la mostra dedicata a Caravaggio e ai pittori caravaggeschi. Pico Cellini, uno dei massimi restauratori del Novecento, dopo averla visitata ricollegò a Caravaggio una tela raffigurante Giuditta e Oloferne attribuita a Orazio Gentileschi, che aveva visto molto tempo prima in un palazzo romano. Cellini riuscì a ritrovare il dipinto presso il proprietario Vincenzo Coppi, a fotografarlo e a mostrarlo a Longhi, che immediatamente chiese e ottenne la proroga della mostra per poterlo includere. Coppi voleva vendere il quadro ma la trattativa fu bloccata e finalmente nel 1971 l’opera fu acquistata dallo stato.
In Giuditta decapita Oloferne colpisce l’urlo di Oloferne morente, la sua espressione, sono questi aspetti a essere messi in rilievo, certo le esecuzioni erano pubbliche e quindi il Merisi, come altri artisti prima e dopo di lui, potrebbe essersi ispirato a quello che aveva visto. Nel quadro di taglio orizzontale, raffigurata di tre quarti, Giuditta è bella, decisa, e uccide Oloferne sotto lo sguardo della fida e vecchia Abra. In esposizione c’è la tela realizzata (1610-1615) a memoria Giuseppe Vermiglio (1587 circa – 1635 circa), che aveva visto il dipinto del Merisi nella collezione di Ottavio Costa e, nell’affrontare lo stesso tema, è quello più vicino all’originale pur non essendo una copia. Di grande rilievo il dipinto (1627-1629 circa) di Valentin de Boulogne (1591 – 1632), caratterizzato da i toni cupi quasi monocromi prossimi a quelli della Giuditta di Bartolomeo Mendozzi (1600 circa - post 1644), entrambi in mostra. II quadro di Valentin è un prestito proveniente da Malta (MUŻA, National Community Art Museum) reso possibile dal restauro del museo. Caravaggio dipinse un’altra versione della Giuditta, ora scomparsa, che fu messa in vendita a Napoli nel 1607, il dipinto (post 1607) in mostra attribuito a Luis Finson (ante 1580 –1617) che conobbe già a Roma Caravaggio e le sue opere, è quello che si ritiene più vicino all’originale. La versione napoletana è quella che fu più conosciuta e influenzò i contemporanei, un esempio è quello (1637) di Filippo Vitale (1589 circa - 1650) che arricchì la scena con particolari raffinati nella rappresentazione di Giuditta.
Artemisia Gentileschi e il teatro di Giuditta è il tema della terza sezione in cui è possibile ammirare Giuditta decapita Oloferne della pittrice, proveniente dal museo di Capodimonte, l’allusione al teatro è pertinente perché l’azione della protagonista è già rappresentata teatralmente in alcuni precedenti esempi ma soprattutto dopo l’esempio di Caravaggio. In Artemisia Gentileschi (1593 – post 1654) l’interpretazione del tema è straordinaria e sposta l’attenzione sulle due donne e la loro solidarietà, la giovane Abra aiuta Giuditta a conficcare la spada nelle gola di Oloferne, contrariamente alla tradizione biblica. È una immagine cruda e realistica che mette in evidenza l’atto violento e risoluto delle due donne, mentre l’inutile difesa e il grido di dell’uomo sono, diversamente da Caravaggio, in secondo piano. Nell’ideazione del soggetto può avere influito il ricordo bruciante dello stupro subito da Agostino Tassi, a cui fece seguito lo svolgimento del processo e l’interrogatorio durante il quale patì la tortura, anche se il Tassi fu riconosciuto colpevole l’esperienza fu terribile. Il quadro, infatti, fu realizzato presumibilmente a Roma intorno al 1612, anno anche del processo.
Sempre nella stessa sala sono esposti due quadri del padre Orazio Gentileschi (1563 – 1639) Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne (1608-1609) proveniente da Oslo in cui già appare una giovane Abra e con lo stesso titolo quella, (1621-1624 circa) proveniente da Hartford, Wadsworth Athenaeum Museum of Art (Connecticut, USA). È lo stesso soggetto ma nel primo Giuditta rassicura Abra, nella seconda invece c’è la giovane ancella che si volta per un rumore mentre l’altra sembra assorta nei suoi pensieri. In mostra possiamo confrontare lo stesso tema ripreso da Artemisia nel dipinto (1615 circa) in cui le due giovani donne si voltano mentre fuggono nel timore di essere inseguite. Un aspetto unisce i Gentileschi, la raffinatezza delle vesti e degli accessori che differenziano lo status sociale di Giuditta e Abra, aspetto che probabilmente veniva apprezzato dalla committenza.
Giuditta decapita Oloferne tela di Biagio Manzoni (1595; notizie fino al 1648) è la più fedele alla Giuditta di Capodimonte di Artemisia. Tra quelle in esposizione ci sono anche opere che si rifanno a Rubens come nella Giuditta consegna la testa di Oloferne alla fantesca, (1608) dipinta da Giovanni Baglione (1566/1568 circa – 1643) per il cardinale Scipione Borghese, Giuditta è ritratta con il seno scoperto secondo il modello della pittura fiamminga. Il superamento della rappresentazione caravaggesca è nel rappresentare la situazione finale, Giuditta consegna la testa alla fantesca di Giuseppe Vermiglio (1620), stesso titolo per quella (1618) di Bartolomeo Manfredi (1582-1622), quella (1645) di Guido Cagnacci (1601 –1663) e quella meditativa (ante 1659) di Mattia Preti (1613 – 1699). Sono opere in cui ci sono echi caravaggeschi come il fondo scuro, la luce e nel Cagnacci la sontuosità della veste di Giuditta ricorda il modello dei Gentileschi, ma nell’insieme sono opere statiche in cui la violenza è intuita ma non rappresentata. Ci si può chiedere se questo cambio di rappresentazione rispose al cambiamento di gusto nelle richieste della committenza o a una diversa sensibilità degli artisti o a entrambe le motivazioni.
L’ultima sezione Le virtù di Giuditta. Giuditta e Davide, Giuditta e Salomé, vengono messe a confronto due figure Giuditta e Davide uniti dalla visione allegorica della vittoria della virtù, dell’astuzia e della giovinezza sulla forza bruta del tiranno che viene decapitato. Spiccano gli emblematici dipinti di Valentin de Boulogne, Giuditta con la testa di Oloferne, (1626-1627circa) e David con la testa di Golia, (1615-1616 circa) in cui l’eco del Merisi è ancora evidente. I due personaggi volgono lo sguardo allo spettatore ammonendolo, Giuditta con l’indice verso il cielo ricorda di avere agito per volontà divina. Ricordiamo anche Giuditta con la testa di Oloferne, (1610-1612 circa) di Cristofano Allori (1577 - 1621), la sontuosa veste dell’eroina ricorda i Gentileschi, e Salomè e la serva con la testa del Battista (1624-1625 circa) di Francesco Rustici, detto il Rustichino (1592 – 1625) la rappresentazione è tale che potrebbe essere Giuditta cosa che mostra come certi modelli possano applicarsi a personaggi profondamente differenti.