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Parenti serpenti. Al calore della stufa
Parenti serpenti è un film che ha il torto di uscire nei primi anni Novanta, un periodo di crisi nera per il cinema italiano, ma si segnala per il grande mestiere che Mario Monicelli mette nelle sue opere.
Il regista gira la pellicola a Sulmona, contraddicendo la volontà del soggettista Carmine Amoroso che aveva ambientato la storia a Lanciano, ispirandosi ai suoi pranzi familiari durante le festività natalizie. Sulmona ha tutto per rappresentare i vizi della provincia ed è perfetta come location che contiene in poche centinaia di metri la casa dove si svolge l’azione, la chiesa e la piazza centrale.
Il film si sviluppa seguendo la voce narrante di un bambino che racconta un Natale a casa dei nonni, forse il Natale più nero del cinema italiano. Paolo Panelli è nonno Saverio, un ex-carabiniere rincoglionito, mentre Pia Velsi è nonna Trieste, donna in gamba che prepara il pranzo di Natale e ospita le famiglie dei figli.
I gruppi familiari che si riuniscono sono quattro: Lina (Marina Confalone) con il marito Michele (Tommaso Bianco), geometra a Teramo, e il figlio Mauro (Riccardo Scontrini, voce narrante). Milena (Monica Scattini) e Filippo (Renato Cecchetto), una coppia stressata che non può avere figli. Gina (Cinzia Leone), moglie un po’ puttana dell’impiegato Alessandro (Eugenio Massari), che hanno come figlia Monica (Eleonora Alberti), aspirante ballerina. A complicare le cose si scoprirà che Gina - donna dal passato molto chiacchierato - ha una relazione segreta con Michele, marito di Lina. Alfredo (Alessandro Haber) completa il quadro, come single omosessuale, professore di italiano in un istituto femminile che convive con un vigilantes.
La trama comincia secondo i canoni della commedia all’italiana che racconta vizi e difetti dei protagonisti, ma si conclude come un noir ironico e imprevedibile. Nonna Trieste chiede ai figli di prendersi cura di loro in cambio della casa, scatenando una guerra tra parenti durante la quale nessuno è disposto ad accogliere in casa i genitori. Alla fine si troveranno uniti nel proposito di sbarazzarsi dei vecchi con una stufa a gas manomessa. La voce narrante del bambino legge il tema scolastico sulle vacanze, rivelando il crimine quando scrive che la stufa non era vecchia e difettosa, ma nuova e regalata dai parenti.
La pellicola gode di un’ottima ambientazione provinciale, la storia si sviluppa con ritmi teatrali in un Natale nevoso e freddo, tra dialoghi sulla politica e ricordi del passato. “Il muro è crollato. Chi vi difende più?”, è una frase inserita in un dialogo che ricorda la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo. Monicelli si sofferma sulle caratteristiche tipiche del Natale in famiglia, tra alberi da addobbare, dialoghi senza importanza, donne che parlano di matrimoni e malattie, uomini che si dedicano alla politica e al calcio. Non manca la processione da seguire in silenzio e al buio, prima del bacio ai genitori, anteprima del pranzo di Vigilia.
La televisione comincia a essere una presenza ingombrante, leitmotiv borbottante che fa da sottofondo ai dialoghi dei protagonisti e condiziona le cose da dire. È un vecchio discorso felliniano (La voce della luna, Ginger e Fred) che Monicelli dimostra di condividere. Alfredo - il più intellettuale - cita Oscar Wilde (“Le cose buone della vita sono immorali o fanno ingrassare”) e la zia Gina ribatte: “Carina. Chi l’ha detto?”. Le frasi fatte sono all’ordine del giorno, cose come “Tenersi per mano e darsi tanto amore”, ma c’è chi afferma che “Siamo dei replicanti: sposarsi, mettere al mondo dei bambini…”. Il Natale di provincia è fatto di palle di neve, pupazzi, partite a carte tra uomini, pettegolezzi e tombolate. Il rito si completa con la messa di mezzanotte dove tutti sono elegantissimi, ma ognuno spettegola sul conto dell’altro.
Monicelli descrive bene i personaggi, amalgama con mestiere un cast composito e affiatato, costruisce un film corale dove ogni scena è studiata nei minimi particolari. Niente è lasciato al caso, soprattutto le presenze secondarie e i personaggi che si muovono sullo sfondo.
Monica Scattini è brava nella parte di Milena, una nevrotica che non può avere figli. Alessandro Haber è un ottimo gay intellettuale che imita le gemelle Kessler e rivela la sua natura solo quando non può farne a meno. Panelli è un credibile nonno rincoglionito, al suo ultimo lungometraggio cinematografico, visto che dopo farà solo due serie di Pazza famiglia per la televisione. Pia Velsi è una buona caratterista che proviene dalla scuola del teatro napoletano e si mette in luce come comica di varietà.
I due vecchi sono i soli personaggi positivi del film, capaci di credere ancora in una famiglia che medita come liberarsi di loro. Marina Confalone è un’attrice di teatro che debutta con Eduardo De Filippo, si afferma nel cinema come coprotagonista e spalla di comici (Sordi, Vilaggio, Panelli…), spesso diretta da grandi registi come Steno, Nanni Loy e Mario Monicelli. Cinzia Leone è ben calata nella parte e anche lei vanta un passato teatrale di tutto rispetto, ma pure Monica Scattini non è da meno. Riccardo Scontrini è il narratore, un bambino che racconta lo sfacelo in maniera asettica.
Il film è molto teatrale, quasi tutto girato in interni, graffiante, caustico, cattivo, non lascia un barlume di speranza. Monicelli rappresenta una famiglia come un’armata (e in questo ricorda il suo L’armata Brancaleone), parla di vecchiaia e critica i rapporti tra genitori e figli. Parenti serpenti è un film cult, anche se non convince la critica contemporanea che lo definisce “un bozzetto grottesco dal ritmo fiacco e dotato di una sceneggiatura debitrice di Cupo tramonto” (Paolo Mereghetti).
Il pubblico premia la pellicola soltanto nelle varie edizioni Home Video, perché scompare presto dalle sale, mal distribuita e vittima della crisi cinematografica degli anni Novanta. Parenti serpenti fotografa bene la cinica realtà di provincia, mette in scena la crisi della famiglia e - secondo una lezione ormai consolidata - aggiunge elementi tragici alla commedia.
Mario Monicelli è un regista autore di grandi successi nazionalpopolari, ma la definizione va intesa secondo la lezione di Antonio Gramsci, non certo quella di Pippo Baudo. La sua opera è un patrimonio culturale che ci rappresenta tutti, perché realizzata dall’artista meno provinciale del cinema italiano.