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Plastic Beach. Il senso etico secondo Babrow
La crisi antropologica ha generato una profonda riflessione in diversi campi della ricerca. Da quella storica, sociologica, politico, filosofico-religiosa a quella artistica. Per cui si delinea oggi giorno e si fa sempre più concreta la tesi di una società postmoderna che dal neo liberalismo e capitalismo, è slittata nella dimensione speculativa, distaccata dalla realtà. Ogni elemento o funzione sociale, diventa astratto e l’unico valore di scambio è il denaro e il mercato. L’uomo non è più al centro del progresso, bensì uno strumento in un sistema sociale in cui l’individuo ha perso il suo ruolo e ogni elemento costitutivo della realtà diviene una risorsa: dal paesaggio, al mondo del lavoro, come si evince dall’espressione “human resource”.
In questo scenario, questa società speculativa opera attraverso "simboli" che diventano la base del giudizio, nell’interfaccia tra persone. Umberto Galimberti nell’incontro “Feticismo del mercato”, Filosofarti 2016, ha sottolineato come “il denaro è simbolo di un bene e l’economia finanziaria si arricchisce con i simboli”.
Ecco che l’uomo diventa prigioniero di un sistema nichilista che costruisce il nulla e reitera se stesso creando delle necessità simboliche, attraverso la pubblicità, per alimentare modalità speculative, giocando sui bisogni o condizioni esistenziali soggettive, riversando gli scarti e gli sprechi sul pianeta, producendo così rifiuti.
Una condizione dalla quale liberarsi, per cui ogni azione dovrebbe rivelarsi un atto di responsabilità etica e non a caso, l’artista di origine sudafricana Alessia Babrow ha deciso di operare ai confini, sempre in tensione, borderline, rifiutando di essere “commercializzata” o trasformata in un “marchio” nel gioco dell’apparire come “tendenza”. Una personale ricerca artistica mirata al messaggio sociale e di denuncia, che impiega diversi mezzi artistici che spaziano dalle tecnologie più avanzate, alla realizzazione di opere di riciclaggio, sempre destinate al concetto di Arte Pubblica.
Da qualche anno, a ridosso dell’estate, l’artista si reca sui litorali più danneggiati, per documentare lo scempio dei rifiuti sulle coste italiane. Un impegno a livello personale per cui la stessa Babrow interviene direttamente e in modo del tutto individuale, ripulendo alcune aree e riutilizzando successivamente nelle sue opere i rifiuti rimossi dalle spiagge. Per l’artista non vi è un’esigenza di riconoscimento dell’azione o un intento sociale espressamente mirato “nell’aiutare qualcuno di specifico”, oggi diventato anch' esso una forma di business, quanto l’alito sottostante di agire in linea e coerenza con quello che può essere comunemente chiamato "senso civico", ma meglio espresso da tutte quelle teorie convalidate che oggi affermano e danno importanza all'azione di un singolo individuo come co-creatore che attraverso le proprie azioni influenza la realtà che ci circonda.
Al "Perchè lo fai?", domanda rivolta alla Babrow da chi voleva speculare sul suo operato, lei risponde con uno scatto di denuncia intitolato “Plastic Beach”. Titolo che possiamo ritrovare dalla musica dei Gorillaz agli enti e associazioni ambientaliste volte a denunciare e sottolineare quanto sia un problema comune e che coinvolge tutti. Una fotografia scattata sul litorale laziale che racconta la triste realtà che si cela dietro una società d’immagine, del simbolo e dell’apparire a scapito di tutto ciò che la circonda. Uno stile di vita che si ripercuote sul nostro ambiente.
Negli Oceani, troviamo vortici di plastica che si trasformano in isole e secondo i dati ufficiali, ogni anno milioni di tonnellate di questi rifiuti sono immessi negli oceani e nei corsi d'acqua e provocano il decesso di un milione di uccelli e cento milioni di animali marini, come pesci, tartarughe e balene, per impigliamento, soffocamento e indigestione. La società del consumismo ha comportato un cambio radicale negli usi e costumi degli individui e si rivela essere “il più mortale predatore del mare”.
Per realizzare questo scatto altamente rappresentativo per l’artista è stato sufficiente recarsi sul litorale, senza creare set o allestimenti, incarnando il ruolo di una persona comune che, con l’arrivo della bella stagione si reca al mare, in spiaggia “perché così fan tutti”, con la sdraio personale, simbolo del confort individuale e l’ombrellone. L’opera fotografica è un auto scatto, realizzato con il preciso intento di rievocare gli ormai diffusi “selfie”, applicazione realizzata dalle aziende per produrre inutilità, diventato oggigiorno uno “statuto”: un autoscatto che rappresenta la vanità e al contempo il narcisismo individuale, perdendo la funzione originaria del preservare un ricordo o generare un’emozione, trasformando il suo fine nel creare un’immagine di sé che si vuole offrire agli altri. Un modo per esporre se stessi in una vetrina, una passerella, in ogni momento, dove il giudizio viene espresso attraverso il simbolo
L’opera “Plastic beach” propone slittamenti attraverso diversi rimandi e significati. L’artista infatti, incarna il ruolo del bagnante domenicale, incurante di tutto ciò che lo circonda, tanto che non si accorge di trovarsi nel bel mezzo dei rifiuti. Nello sfondo, appare la sagoma della barca di un pescatore, unico elemento di contatto tra questa società e il rapporto antico con il mare e le sue risorse. Un elemento poetico che s’insinua nel silenzio dell’orizzonte, rievocando una dimensione che va scomparendo, sulla quale incombe un cielo plumbeo e apocalittico alla Blade Runner.
Volutamente, Babrow ha elaborato un contrasto nel trattare la figura in primo piano e i suoi oggetti del benessere con colori acidi, un po’ retro e pop, offrendo quella visione di una società tradizionale e il prezzo pagato per il suo benessere.
Plastic Beach coniuga il linguaggio documentaristico al messaggio ironico, in un impianto tragicomico che sconfina nel teatro dell’assurdo, per cui l’impressione iniziale di “esagerazione” è reale più che mai. Tramite quello che potremmo definire la firma dell’artista, ovvero lo slittamento e il ribaltamento del messaggio pubblicitario che si palesa nella scritta “Plastic Beach” in caratteri cubitali sulla sdraio, arriviamo ad un’ulteriore livello dell’opera, quello in cui Babrow non solo denuncia l’ottusità di una società che non vuole vedere - rimarcata dagli occhiali da sole - ma che paga e accetta anche il prezzo di un’estetica non più funzionale, il cui simbolo per eccellenza è appunto la plastica: materiale di consumo, applicato in tutti i settori nella vita di una persona. Questo si riflette nella stessa posa “plastica” assunta dall’artista, con l’ormai cliché” dell’espressione o in-espressione delle labbra “botulino”. Quegli occhiali, metafora della nostra cecità, hanno il riflesso di un cielo azzurro, laddove alle spalle, le nuvole predominano la composizione e il volo di un gabbiano, maestoso e silente, nonostante tutto, offre le prime note di una segreta corrispondenza, in cui riappare la natura con qualche barlume di speranza. Una speranza, in cui "fare la cosa giusta" diventi un automatismo e non un altro "simbolo".