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Il primo uomo di Gianni Amelio. L'ultimo sogno possibile
Il nuovo film di Gianni Amelio, che non tornava al cinema da La stella che non c’è del 2006, è tutto dedicato ad Albert Camus (1916-1960), lo scrittore francese nato in Algeria, che indagò con estrema virulenza, e capacità introspettiva, le motivazioni dell’esistenza. Con Il primo uomo, Amelio rende un omaggio compiuto agli ultimi ed ai primi anni dello scrittore: una formazione che portò all’impegno politico come giornalista e come dissidente, un uomo in rivolta (L’homme révolté, 1951), come recita uno dei suoi saggi di maggiore pregnanza (e frutto della divisione con Sartre).
Il film parte dall’infanzia povera di Camus, mischiando flashback dall’Algeria moderna (l’epoca relativa agli anni ’50, poco prima della morte di Camus) e dai primi anni ’20, quando Camus bambino vive con la madre – interpretata da Maya Sansa – e la nonna materna, estremamente severa e anaffettiva.
Il personaggio di Camus alla ricerca del padre, un certo Jacques Cormery, morto in una guerra che “nemmeno gli competeva” secondo le parole di Camus stesso in quanto algerino e non francese (il riferimento è alla battaglia della Marna del 1914), è interpretato da Jacques Gamblin: eccezionale nel suo sguardo riflessivo, intenso, mai sopito e severamente assorto, Gamblin fa rivivere Camus ed il suo impegno irrevocabile nella società, sempre vivo e inderogabilmente imparziale.
“Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”: questa è in fondo la parabola di un film che si costruisce con lo stesso impegno con cui Camus ha affrontato la sua vita, una battaglia continua che però, come ben asseriva ne La peste (1947), sarebbe stata appianata talvolta, rendendo meno acerbe le difficoltà umane, quell’eterno scontro nelle modalità relazionali, soltanto dalla solidarietà, eterna nemesi per la solitudine in cui è avvolta la nostra esistenza.
Il rapporto con la madre, il padre assente e sovente cercato nelle memorie, quell’uomo ideale che si è nel proprio sogno possibile è, come dice Camus stesso: “L’arma della cultura da scagliare contro il destino”. Quell’avversità tanto comune, che ognuno pensa sia riservata a lui solo, che sprofonda le radici in quel grande ed unico in fondo – secondo Camus, e non è il solo – problema dell’esistenza: il suicidio, l’affrontare ogni giorno quella lotta per la vita che ci convince a esperire un mondo di stenti e di delizie, quell’aut aut kierkegaardiano pronto a spiccare il volo per il nuovo lido, l’ultimo, che non collimerà mai con il proprio sogno, piuttosto con le intime e mai sopite possibilità.
La regia si adagia sui volti, frapponendo tra loro e noi il pensiero che ci sia dell’altro, fra quei veli che nascondono molto più di quel che dicono nel momento della triste rivelazione della verità: della semplicità umana nella sua composita e immanente perfezione. Un film che non si rassegna e, come vorrebbe Camus, “alza la testa”: