Quattri atti profani all'Eliseo. La sacralità della desolazione

Articolo di: 
Giuseppe Talarico
Quattro atti profani

Lo spettacolo Quattro Atti Profani, che porta in scena i testi bellissimi di Antonio Tarantini con la regia di Valter Malosti, in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al giorno 14 marzo 2010, sorprende e suscita una grande emozione per la sua bellezza e per la novità estetica che ha ispirato l’allestimento scenico.

In questo spettacolo, diviso in quattro atti fra loro autonomi, manca ed è inesistente l’unità d’azione e di tempo teorizzata da Aristotele nell’Arte Poetica. Infatti ogni singolo atto dello spettacolo racchiude e rappresenta la tragica condizione esistenziale di figure umane appartenenti al mondo dell’emarginazione sociale, collocato in un contesto umano dominato dalla desolazione e dallo squallore oltrechè da una brutale violenza. Ad evocare il mondo degli emarginati, privi di speranze e costretti a vivere in miseria in luoghi dove regna la degradazione umana, nello spettacolo provvede la scenografia, la quale raffigura un angolo di periferia su cui vi sono affastellati rifiuti, oggetti vecchi e vetusti, giacigli improvvisati e povere baracche destinate ad accogliere i senza tetto.

L’immagine che lo spettacolo offre dell’umanità innocente e dolente, votata e condannata all’ eterna disperazione in un mondo ingiusto in cui l’unico valore è legato al denaro ed al potere, mi ha fatto venire in mente una pagina del libro bellissimo di Vito Mancuso, filosofo e teologo, intitolato L’Anima ed Il Suo Destino (Raffaello Cortina, 2007), nella quale questo pensatore si chiede come sia possibile giustificare la sofferenza umana al cospetto della creazione divina.

Nel primo atto, dinanzi ad una baracca compare una donna vestita con abiti succinti, la quale in un lungo monologo racconta la sua vicenda triste e dolorosa. Interpretata in modo straordinario da Maria Paiato, questa donna parla e ricorda il suo lungo rapporto d’amore con un uomo che ha deciso di abbandonarla dopo averla messa incinta. L’uomo, pur avendole promesso di aiutarla e sostenerla, è scomparso lasciandola da sola, sicché ha dovuto crescere il figlio in condizioni difficili. Questa donna, che oramai vive nella speranza di redimere il figlio dalla condizione di estrema povertà in cui si trova, rivolge il proprio sguardo critico sul mondo, in una lunga confessione, in cui descrive le contraddizioni della società umana, nella quale è assente la solidarietà umana e la giustizia.

Nel secondo atto dello spettacolo appare in scena, dopo essere uscito da una buca profonda, che evoca il manicomio come luogo in cui è necessario rinchiudere i malati di mente, un uomo affetto da follia. L’uomo, che appare prigioniero di un delirio verbale, sviluppa un lungo discorso privo di senso in cui, in alcuni momenti di rara lucidità, baluginano e compaiono espressioni assai significative e profonde. Ai piedi di una croce, collocata in un luogo di periferia desolato e pieno di abbandono e squallore, l’uomo si interroga sulla sua identità, riconosce di non sapere più chi egli sia,  in preda alla follia dichiara di essere come Cristo. Poi, improvvisamente, esprime il desiderio di uscire dal luogo in cui è costretto a vivere, ma con tristezza e dolore confessa di non sapere dove andare, poiché nella sua città di origine, Torino, non c’è nessuno che sia disposto a riceverlo ed ad accoglierlo. L’immagine del matto solo e condannato alla perpetua infelicità è una delle più profonde e dolorose di questo bellissimo spettacolo.

Nel terzo atto, un padre si reca in Grecia per riconoscere il figlio che è morto in tragiche circostanze. Dinanzi al corpo del figlio esanime, un travestito, il padre ripercorre in un lungo e poetico monologo l’intera esistenza della sua famiglia. Il padre, osservando il figlio morto, con l’animo sopraffatto dalla tristezza e dal dolore irrimediabile, immagina il momento in cui il figlio ha perduto la vita. Ricorda i consigli che gli aveva dato, dopo avere scoperto la sua inclinazione per il mondo dei travestiti. Con immagini di straordinaria forza espressiva venate da descrizioni poetiche, il padre del morto confessa di non averlo mai dimenticato e, trattenendo le lacrime per dignità, dichiara di volere riportare il figlio, oramai privo di vita, nella sua città, a Torino. In questo monologo colpisce il confronto doloroso tra un padre, che si sente in colpa per il triste destino toccato in sorte al figlio, ed il giovane uomo che ha perduto la vita a causa delle sue inclinazioni, pur essendo innocente dinanzi alla società degli uomini.

Nel quarto atto dello spettacolo vi è un dialogo tra due figure umane, delineate in modo straordinario dall’autore dei testi teatrali. Sempre in un luogo segnato dall’abbandono e dalla desolazione, un poeta di strada ed un ex giocatore di biliardo, parlano e si scambiano i loro punti di vista sul mondo, la società, la cultura del novecento, sulla condizione di chi è povero ed emarginato. In particolare, il giocatore di biliardo, ad un certo punto, si chiede in un momento di lucidità per quale motivo nel mondo vi debbano essere i poveri, visto che sono condannati a soffrire in eterno. Il poeta di strada, abbarbicato ad una lunga croce, in un lungo monologo, dichiara di essere solo, di non avere nessuno, di considerare la sua esistenza infelice priva di senso e di significato e, mentre grida al mondo il suo dolore irredimibile, muore.

Nella parte finale dello spettacolo ricompare la madre abbandonata, che tenta invano di avere un colloquio con il figlio, un giovane intellettuale interessato alla cultura ed ai libri, finito in carcere perché sospettato di avere partecipato ad attività politiche eversive e terroristiche. Proprio mentre racconta le difficoltà incontrate per liberare il figlio dall’ingiusta detenzione in cui si trova, confessa di non capire come mai suo figlio abbia potuto coltivare la speranza di modificare le eterne leggi che governano il mondo e la società umana. “Il mondo”, dichiara la donna in preda al disincanto, “alle persone che si ribellano all’ingiustizia umana li condanna con una spietatezza che non ammette indulgenza.”

Nello spettacolo il realismo del linguaggio, a tratti violento e volgare, rappresenta una scelta stilistica necessaria per conferire forza espressiva e descrittiva ai monologhi ed al dialogo finale che avviene tra i due emarginati. Ovviamente, guardando questo spettacolo, è facile risalire ai modelli letterari di Pasolini e Testori, che hanno ispirato l’autore di questi quattro meravigliosi atti teatrali. Se gli uomini che sognano e vagheggiano l’edificazione di una società giusta e buona, questo è il messaggio dello spettacolo, fossero capaci di guardare al mondo dalla prospettiva di chi è escluso ed emarginato, forse non sarebbe vano ed impossibile modificare le condizione di vita nella nostra società. Uno spettacolo profondo e illuminante.

Pubblicato in: 
GN10 Anno II 18 marzo 2010
Scheda
Titolo completo: 

QUATTRO ATTI PROFANI
Stabat Mater, Passione secondo Giovanni, Vespro della Beata Vergine, Lustrini.
di Antonio Tarantino e regia di Valter Malosti
con Maria Paiato, Valter Malosti
Mauro Avogadro, Michele Di Mauro
Mariano Pirrello

Teatro Eliseo
Dal 2 al 14 marzo 2010

scene Botto&Bruno
suono Giupi Alcaro
luci Francesco Dell’Elba
costumi Federica Genovesi
regia Valter Malosti
produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino - Teatro Eliseo

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