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Santa Cecilia. Trionfa Pappano nel Requiem di Giuseppe Verdi
Una grandiosa e infiammata ovazione è stata tributata lo scorso 4 febbraio all’esecuzione della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi in cui Antonio Pappano ha diretto l’orchestra ed il coro dell’Accademia di Santa Cecilia. Il cast era composto dal soprano Masabane Cecilia Rangwanasha, dal mezzo soprano Elina Garanča, che era al suo debutto ceciliano, il tenore Seok Jong Baek ed il basso Giorgi Manoshvili. Il Requiem, eseguito il 3, il 4 e il 5 febbraio, è stato dedicato al decennale della scomparsa di Claudio Abbado (1933-2014).
La storia della sua composizione è lunga e complessa e inizia con la morte di Gioacchino Rossini a Parigi nel 1868. I rapporti personali tra Verdi e Rossini, basati sulla stima e il rispetto reciproco, furono cordiali anche se non legati dall’amicizia. Quando morì Rossini, per celebrarne degnamente la memoria, Verdi propose a Ricordi la composizione di una Messa, che sarebbe stata composta da dodici noti compositori italiani scelti da un’apposita commissione. I musicisti avrebbero partecipato gratuitamente, ciascuno con un brano, Verdi si riservò la composizione del Libera me finale. La Messa sarebbe stata eseguita ad un anno dalla morte dell’illustre musicista a Bologna. Il progetto fallì miseramente anche se i compositori furono scelti e i brani consegnati. Nel 1870 quando di nuovo la possibilità di esecuzione alla Scala di Milano svanì, Verdi ne fu molto amareggiato.
Tre anni dopo nel 1873 morì a Milano Alessandro Manzoni per cui il musicista nutriva non solo un’immensa stima, ma per cui sentiva un’autentica venerazione. Nella primavera del 1874 Verdi chiese a Ricordi il manoscritto del Libera me per soprano e orchestra, lasciato in custodia con la consegna di non usarlo. Il Requiem fu eseguito in quello stesso anno in memoria di Alessandro Manzoni il 22 maggio 1874 nella chiesa di S. Marco quando il musicista aveva sessantatré anni.
Questa composizione il cui testo è basato sulla liturgia cattolica è profondamente laica e risente della visione pessimista del musicista, che nel 1883 scrisse a Clara Maffei: “Penso che la vita è la cosa più stupida e quello che è ancor peggio inutile. Cosa si fa? Cosa faremo? Stringendo ben tutto la risposta è una umiliante e tristissima: NULLA” Queste parole non sono così diverse da quelle che l’amatissimo Shakespeare mette in bocca a Macbeth: “La vita…è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato”.
La musica è la drammatica rappresentazione della dolorosa tragicità della condizione umana e testimonia la visione pessimista che Verdi aveva della vita. L'aldilà è assente, non c'è la visione rasserenante che dà la speranza dell'eternità, che chiude usualmente i Requiem.
Verdi, come altri musicisti prima di lui, è stato accusato di aver composto un Requiem operistico, ma non si può che concordare con Bruno Cagli quando afferma che è l'Opera ad aver preso molto delle forme e dei moduli espressivi dalla musica sacra e ricorda che fino al '900 quasi tutti compositori si sono formati nell'ambito delle cappelle ecclesiastiche (a proposito della “Creazione” di Haydn).
L'apertura con il Requiem e il Kyrie è meditativa, cupa e solenne, esplode poi con forza grandiosa e violenta il Dies Irae, costituito da più parti collegate tra loro dal tema di apertura. Questa è la parte più lunga, il cuore interpretativo della composizione in cui è vividamente presente la visione tragica della condizione umana. Il Lacrymosa per soli e coro, che chiude il Dies Irae, ha la sua origine in un pezzo poi soppresso del Don Carlos. Nell'edizione di Parigi al quarto atto, dopo la morte del marchese di Posa, c'è il lamento di Filippo II, la splendida e disperata melodia iniziale viene qui ripresa e adattata al testo lasciando intatte le armonie (vedi Julian Budden le Opere di Verdi III vol ed. EDT musica 1988). Seguono poi L’intenso Domine Jesu – Offertorio in cui domina una splendida melodia, poi lo scintillante Sanctus con una fuga a due cori in Fa maggiore. Sono melodici anche l'Agnus Dei e il Lux Aeterna che preludono all'impervio Libera me per soprano, coro, impegnato ancora in una fuga questa volta in Do minore, e orchestra. Diverso da quello concepito originariamente servito solo come base, è l'epilogo drammatico della composizione, non c'è nessuna rasserenante visione della morte, ma solo la lucida constatazione della tragica condizione umana.
Antonio Pappano è molto legato a questa partitura, l’avevamo già ascoltato in altre esecuzioni e ogni volta si è sorpresi dalla sua direzione che suscita profonde emozioni trasmettendo tutta la tragicità del testo. L’Orchestra asseconda perfettamente le sue intenzioni interpretative rendendo la varietà timbrica delle parti del Requiem e nella dinamica delle esplosioni della trascinante l'esecuzione del Dies Irae, come nei rarefatti pianissimo presenti nella composizione. Il Coro, rinforzato per l’occasione, è stato ben preparato dal maestro del Coro, Andrea Secchi, un’ottima prestazione con qualche lieve imperfezione.
Il soprano Masabane Cecilia Rangwanasha è stata la sorpresa della serata, dotata di una limpida e intonata emissione, possiede una voce vellutata, calda ed espressiva, di notevole volume che si impone all’ascolto, luminoso il Mi naturale nell’Offertorio, intensa l’interpretazione del Libera me. È giovane se continuerà nell’affinare le sue notevoli potenzialità, senza cedere a richieste premature che potrebbero rovinarle la voce, avrà una notevole carriera.
Elīna Garanča, mezzosoprano, non ha convinto, non sembrava a suo agio, ha mostrato acuti limpidi, ma le note gravi sono parse opache, la voce piccola a volte era soffocata e non aveva il peso necessario nel Liber scriptus, ha curato l’emissione del suono ma l’interpretazione risultava algida e distaccata.
SeokJong Baek, tenore, ha fornito una prova poco convincente nell’Ingemisco, voce potente ma a volte opaca, mentre il basso Giorgi Manoshvili ha mostrato ha una bella voce dal timbro bronzeo e robusto che ha messo al servizio della parte, in Mors stupebit e con accenti perentori che ha esibito nel Confutatis maledictis.
La grande e infuocata finale acclamazione del pubblico al termine è stata riservata soprattutto al Maestro Pappano, anche se gli tutti interpreti sono stati lungamente applauditi.