Supporta Gothic Network
Steve McCurry a Cinecittà. Le sagome riflesse della memoria
“Oltre lo sguardo” è il suggestivo titolo della mostra fotografica dell’americano Steve McCurry che è ospitata, con oltre 150 foto di grande formato, nell’inedito spazio del Teatro 1 di Cinecittà dal 18 aprile al 20 settembre.
Non appena si intraprende il percorso della mostra si è proiettati magicamente in un labirinto oscuro con porte che si aprono all’improvviso e che catalizzano lo sguardo dello spettatore su immagini sempre nuove, in un labirinto nel quale è facile perdersi in ammalianti meandri. Un tale allestimento, curato efficacemente da Peter Bottazzi, sembra voler richiamare i labirintici vicoli delle strade nelle quali lo stesso McCurry si addentrava nei suoi viaggi e nei quali si smarriva, lasciandosi andare a una contemplazione pura, profonda dei suoi soggetti.
Un tale abbandono è ciò che si richiede allo spettatore della mostra, che deve lasciarsi condurre dall’istinto per poter cogliere i colori, i giochi di luce di ognuna delle foto esposte su pannelli neri dai quali risalta più nitidamente ogni sfumatura cromatica. Sono foto quelle di McCurry dietro le quali si racchiude un universo metafisico, che rimanda a realtà nascoste, dai plurimi significati. Si tratta maggiormente di ritratti che si soffermano sullo sguardo dei protagonisti, il quale riflette l’essenza stessa di un’umanità molto spesso ai margini, quella delle tribù nomadi dell’India settentrionale o delle popolazioni della Birmania o di altri luoghi per noi remoti; esseri umani appartenenti a paesi in transizione, ma dalla cultura millenaria. Attraverso quella che è la foto più famosa di McCurry, Sharbat Gula, la bambina afgana, si può cogliere, infatti, tutta la tristezza del popolo afgano costretto a vivere nei campi profughi. Sono foto, pertanto, che dall’individuo rimandano alla collettività a cui inevitabilmente si appartiene e i cui segni inesorabilmente si imprimono sulle nostre superfici.
E lo sguardo di McCurry molto spesso indugia sui particolari del volto, facendo risaltare quei dettagli che possono raccontare l’esistenza dei suoi personaggi, come il ritratto di un monaco tibetano, fotografato a Lhasa nel 2000, e di cui l’artista ha evidenziato, attraverso le rughe profonde e l’intensità dei suoi occhi, la vita di studio, di meditazione ma anche di lavoro fisico a cui il personaggio si è dedicato.
Dai ritratti lo sguardo dello spettatore può, tuttavia, ricadere e smarrirsi anche nei paesaggi, come quello caratterizzato da un tempio buddista posto alla sommità di una roccia da cui sembra possa precipitare da un momento all’altro. È questa la foto scattata a Burma, uno dei posti più famosi della Birmania, la quale si inserisce nel progetto curato da McCurry di documentare il buddismo e la quale testimonia la grande attenzione del fotografo per i giochi di luce. È possibile per lo spettatore immergersi in quella particolare atmosfera della serenità buddista contemplando altre foto che rimandano allo stesso progetto, come quella del tempio cambogiano Ta Prohm, inglobato dalla giungla e dagli alberi.
Ed ecco che tra un ritratto di una bambina appartenente ad una tribù nomade e un tempio birmano si può essere proiettati improvvisamente, ma non bruscamente, nella New York del 2001, nel momento dell’attentato alle Torri Gemelle. La metropoli occidentale, patria di McCurry, assurge così anch’essa a protagonista, colta nell’attimo fatale della devastazione, delle macerie, della tragedia. Un’altra catastrofe documentata dall’abile scatto di Mccurry è anche il terremoto che si è abbattuto sul Giappone nel 2011. Oltre allo scenario di distruzione immortalato dal fotografo si nota anche la sua volontà di enfatizzare la voglia di ripresa di un popolo pieno di dignità come quello giapponese. Emblema di ciò è, infatti, la foto di Tagajo raffigurante lo specchio rotto e la sagoma riflessa; è proprio la crepa, il frammento a rappresentare un trait d’union tra presente e passato, rappresentando icasticamente ciò che sopravvive tenacemente, seppur lacerato. Non è casuale che tale motivo delle crepe, dello specchio rotto sia presente anche nelle immagini dell’attentato dell’undici settembre, come elemento costante di tragedie alle quali, in qualche modo, si vuole reagire.
E la sensazione della preferenza di McCurry per il frammento si avverte anche quando, nei vorticosi giri del percorso fotografico, ci si ritrova dinanzi ad immagini scattate a Roma, raffiguranti resti di statue, rovine antiche, emblemi di una passata grandezza che ancora nonostante tutto persiste.
Proprio la persistenza di ciò che avviene, la sopravvivenza di attimi fugaci colti con meticolosa pazienza, ma anche istintivamente, è il fine del lavoro di uno dei più grandi fotografi del nostro tempo, che impone alle nostre coscienze immagini che parleranno all’infinito.