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Tamara De Lempicka al Vittoriano. Il ritratto sensuale dell'alta società
Con ottanta dipinti, trentacinque disegni, cinquanta fotografie e due film con lei protagonista, questi ultimi risalenti agli anni trenta, Tamara de Lempicka (1898-1980) accede al Vittoriano di Roma come una regina, riverberando la mostra sulla Duse appena terminata. L’artista polacca era stata a Roma nel 1957 alla Galleria Sagittarius della Principessa Stefanella Barberini Colonna di Sciarra, quando era già famosa in tutto il mondo, e viveva negli Stati Uniti dal 1939, quando la seconda guerra mondiale l’aveva costretta a lasciare la Polonia. La mostra, a cura di Gioia Mori, sarà a disposizione con il suo percorso artistico fino al 10 luglio 2011.
Rilievi cubisti, profili a volte acuti, colori densi e tanti nudi di donna, insieme alle silhouettes dei grattacieli di una New York dove era approdata dopo aver vissuto da aristocratica qual’era, sposata a diciott’anni ad un nobile avvocato, Tadeusz Lempicki, da cui prese il cognome, formano il quadro di un artista poliedrica e stupefacente in un luogo che celebra la sua amicizia con D’Annunzio (1863-1938), tra i tentativi di seduzione di lui, che all’epoca aveva il doppio della sua età, e quelli di ritrarlo di lei, per ovvie ragioni di marketing (le avrebbe garantito, era il 1927, un clamore eccezionale in tutto il mondo).
Sebbene i dipinti di nudi e di donne siano i più rilevanti, da ritrattista dell’alta società, soprattutto nobiliare, sono numerosi anche quelli maschili, come il Ritratto del Barone Kuffner in poltrona (1954) che era diventato il suo secondo marito nel 1954, oppure quello famoso del Marchese d’Afflitto (1925), o del Principe Eristoff (1925), tutti venati da una certa androginità ambigua.
I capolavori esposti in questa mostra sono le conturbanti donne con cui ebbe ed espose le sue relazioni: due sono particolarmente erotici, e sembrano quasi esser provenienti da un’estasi post-carnale, quelli dedicati alla bella Rafaela del 1927, le cui forme rinascimentali e rubensiane nella morbidezza, fanno pensare a quanto amasse le sue amanti la Lempicka, e all’effetto ridondante che producevano sui quadri.
Altri percorsi mostrano gli sguardi seduttivi e vampirici che sono denominati a seconda del colore del turbante oppure delle sciarpe delle sinuose donne ritratte: il primo, la Verde giada (Il turbante verde, 1929), racchiude negli sguardi una potenza magnetica che ipnotizza nel nocciola la seconda donna, dolcemente reclinata sulla spalla della donna col turbante. La sciarpa arancione (1927), ancora con due donne, mostra di nuovo due archetipi, della seduttrice sicura, dallo sguardo volitivo, e la sedotta, col viso puntato verso l’alto e gli occhi già dispersi in qualche ricordo onirico. Il Nudo sdraiato con libro (1927), espone la piena libertà del sogno femminile, quanto la muscolarità del nudo precedente, Donna che dorme (1923), ritrae in qualche modo la potenza di quello stesso desiderio, così energico anche sotto i grattacieli della grande metropoli, nel Nudo con grattacieli (1930).
I quadri dove le donne appaiono rivestite di colori, ornamenti di tessuto, come la Donna con mandolino (1923), oppure il Ritratto di Madame M (1932), sono caratterizzati da questi blu indaco che stemperano la voracità carnale in un riflesso poderosamente estatico, dell’après qualcosa, come una chiamata nel Telefono II (1930), esageratamente e piacevolmente sensuale.
Un’altra sezione riguarda i quadri dedicati al dolore, come il Ritratto di Ira P. (La sua tristezza, 1923, ritratta probabilmente anche ne La donna vestita in nero, dello stesso anno), dove i colori tendenti allo spento, insieme ai due occhi preoccupati dell’amica di sempre (dipinto ritrovato durante le ricerche per la mostra dopo oltre ottant’anni), aprono uno sfondo che ritrae la Parigi bohémienne dei suoi primi viaggi nella Ville Lumière, dove organizzò le sue prime importanti mostre e vendette i primi quadri, mentre il marito oziava.
La fuga da Varsavia, dalla Polonia invasa nel 1939, è terribilmente verosimile ne La fuga (1940) dove vengono ritratte una madre con la propria bimba in braccio mentre le nuvole si addensano su palazzi di fine Ottocento. Già qualche anno prima, i rigurgiti nazisti sono evidenti (lei è figlia di un padre ebreo russo e di madre polacca) nel ritratto di San Giovanni Battista (1936), dai chiaroscuri caravaggeschi, e nella brunita tela de I rifugiati (1931). Il dipinto di La Madre Superiora (1935), piangente, fa il paio con la Vergine Blu (1934): entrambe le tele sono l’una il percorso del pianto e l’altra la sua consolazione, due specchi l’una dell’altra.
La fase susseguente degli anni ’40, americani, dona delle tele non solo di interni come quelle dello Studio in campagna (1941), o della Composizione in studio (1941, dove si respira una certa tranquilla immobilità della natura, ma anche rigogliose rappresentazioni di fanciulle esotiche o ornate da fiori (di questi anni anche i vasi di fiori e le nature morte): La messicana (1947), Il cappello con la rosa (1944-47), ed una virginale quanto estaticamente religiosa Ragazza con viole del pensiero (1945), che tanto ricorda l’amato Carpaccio, ma anche Botticelli e Raffaello, per un’alare ventata di frescura italica, protetta dal raffinato copricapo a pois della Donna con cappello del 1952, rossa di capelli, e che entra coi guanti nella vita di questa donna invincibile, le cui memorie come lapilli esploderanno dal vulcano di Popocatepetl in Messico.