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Teatro del Sogno a Perugia. La lunare figurazione del sogno
Come si fa ad entrare dentro un sogno? Forse in punta di piedi mentre Beckham dorme nel video di Sam Taylor-Wood oppure osservando le tele immaginificamente bluastre di La Famille di Chagall. Il tappeto cromatico e felpato per osservare questi ricordi onirici si distende nella Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia per il Teatro del Sogno Da Chagall a Fellini dal 25 settembre 2010 fino al 9 gennaio 2011 a cura di Luca Beatrice.
I blu ditirambici di Chagall accolgono come seni turgidi tra le braccia della madre di La Famille (1975-76), dipinto simbolo della mostra, quasi a riverberare ricordi di un’ospitalità primordiale, tra le lune notturne della slitta con la testa di donna in Le traineau (1943), oppure gli abbracci coloratamente vivaci di La Famille del 1979. Siamo nella casa del sogno dove tutto può accadere e dove i ricordi si mischiano protervi alla realtà, senza distinzione di continuità.
In questa magione è il cielo a sormontare la vista come in Le Rêve (1980 circa), lo sfondo panoramico di una lucente cittadina con grandi alberi fruttati e fioriti sopra le teste dei due amanti. Come per le teste del pubblico de L’Opéra Garnier (disegno preparatorio del 1963), su cui affluiscono ballerine piumate e angeli alati in un trionfo di vitalità. Le nu au-dessus de Vitebsk (1933) ci mostra come si può essere nei sogni: al di sopra della città, del nostro vivere quotidiano: una donna distesa per orizzontale su un lenzuolo che sovrasta lieve la piazza centrale, mentre L’éco du vide di Dalì (1935-36) è lì che aspetta, sfuggente come la figura in basso a sinistra, lunga come l’ombra del faraglione. Vicine si adagiano, l’una in osservazione del cielo, l’altra dormiente, le due fanciulle di Il Notturno di Previati (1908), insieme all’unica fanciulla dispersa tra la nebbia con un accenno di luna nell’altro Notturno di Plinio Nomellini.
Immersi nel blu dell’allestimento di Matteo Ferroni e le luci cadenzatissime di Titta Buongiorno, ci inoltriamo in un percorso labirintico tra le tele rosse e gialle di Max Ernst, un ludibrio di colori insieme a quelli giocattoleschi di Savinio, con i suoi caramellosi I re magi (1929), giungendo alla meraviglia delle sponde di Thebe (1928) di De Chirico o la sua Piazza d’Italia (1924-25), per fermarci in una litania borgesiana nel tempo. La cerva bianca del poeta argentino (Libro dei sogni, Libro de sueños, 1976) si sporge su un fianco per mostrarci “l’avvenire profondo” che si nasconde tra Les ombres (1965) di Delvaux, nella sua isola L’île (1965), dove lo sguardo si perde altrove, nell’infinito blackiano, dove non vi è limite per l’occhio umano e tutto perdura incorrotto ed eterno. Prima di tutto la sensualità di queste donne umbratili la cui percezione si fa diagonale, su un fianco, come la cerva di Borges, intermediaria tra il mondo magico dell’altrove simbolico che gli sguardi perduti Les regards perdus (1927-28) di Magritte fanno riafforare su un limbo che è traccia dello stesso volto al passato.
Con Magritte i capelli piombano boccolati come vessilli di una narrazione in Le roman populaire (1944), in contrasto con le donne mannequin di Man Ray, finte bambole feticcio che con il dadaista Tristan Tzara (in una delle foto di Man Ray) diventano le Boxing Helena (il film del 1993 dell’allora esordiente Jennifer Lynch) degli anni ‘20, l’inscatolamento del femminile in un assemblaggio costruito e destrutturato par soi-même.
Volgiamo però ancora lo sguardo indietro, nella saletta in cui Beckam finge di dormire, modello perfetto e fascinoso di sé stesso, alle azzurrate pennellate di Chimilco (1938) di Tanguy, all’evanescente Sleep di Warhol per immergerci nelle visioni della luna di Fellini: dalle passeggiate per Via Veneto al bagno nell’Oceano di Nicolò Salvi. L’occhio però sarà la scelta finale, lo spettroscopio la misura della visione incantata da Spellbound (1945) di Hitchcock e le scenografie allucinanti di Dalì a 24 frames al secondo, per irrorarne del magma l’io profondo.