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Teatro Eliseo. La necessità del parricidio
Dalla sera del 5 febbraio scorso fino al 17 febbraio I fratelli Karamazov sono stati in scena al Teatro Eliseo di Roma nella corroborata versione di Glauco Mauri e Roberto Sturno con la regia di Matteo Tarasco. La sera della prima è stata interrotta da un malore di Mauri che il pubblico ha "abbracciato" calorosamente con due lunghi applausi affettuosi, dimostrando di essere affezionato ad una compagnia formata da due capisaldi del teatro nostrano con una lunga tradizione alle spalle, per preparazione e per quell'approfondimento introiettivo rivelato dai loro spettacoli.
Lo spettacolo inizia con dei canti cupi ed una musica religiosa che introduce lo starec Zosima (Paolo Lorimer) e la sua presenza nella vita della famiglia Karamazov, una congerie di fratelli l'uno distante dall'altro per filosofie, scelte, istinti. Da Mitja, ovvero Dimitrij (Laurence Mazzoni), il primogenito specchio del padre dissoluto Fëdor Pavlovič (Glauco Mauri); poi c'è Ivan (Roberto Sturno), il nichilista filosofo che fa da contraltare ad Alëša (Pavel Zelinskiy), che ha abbracciato con fervore la religione; infine Smerdjakov (Luca Terracciano), figlio di una delle avventure "del sottosuolo" del padre con una povera e becera mendicante, e che il padre tratta da servo un pò scemo, impartendogli ordini come ad un cameriere.
Il fondo dell'ultimo romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, ultimato nel 1879, due anni prima della sua dipartita,si riassume difficilmente in quanto coerente nelle sue contraddizioni, che disseminano dubbi elaborando concezioni, come nei discorsi di Ivan, quando asserisce che: "Se Dio non esiste tutto è permesso", e quindi anche l'omicidio visto che, se anche esistesse, sarebbe ingiusto in quanto uccide i bambini innocenti e Ivan continua quindi a sciorinare tutta una serie di accuse ingiuste per cui Dio, anche se esistesse, sarebbe del tutto ingiusto, come tutti gli uomini. E questo discorso colpisce sia Alëša che Smerdjakov: l'uno vi oppone la sua profonda cristianità; l'altro lo adopera per giustificare il parricidio che commetterà a breve e di cui sarà incolpato Mitja, geloso della relazione mercenaria della "leggera" Grušen'ka (Alice Giroldini) con suo padre, vecchio avido e libidinoso.
Dimitrij è altrettanto personaggio del sottosuolo come il padre: si innamora infatti della cortigiana Grušen'ka invece della fidanzata ufficiale Katerina Ivanovna (Giulia Galiani), della cui ingenuità e correttezza ha approffittato, prima facendole un prestito per salvarne il padre e, una volta ricevutolo indietro, lasciandola per una donna soltanto interessata ai soldi come Grušen'ka. Il denaro infatti è il perno attorno al quale ruotano sia Mitja sia il padre Fëdor , accomunati dallo stesso bisogno di detenerlo per oettenere i favori della donna mercenaria, cui non fa differenza l'uno o l'altro se non per questioni di ottenimento di maggiori beni materiali.
L'omicidio del padre che si attuerà alla fine, è introdotto e dato per certo fin dalle prime battute: l'odio ingenerato nei figli per la volgarità estrema ed egoista del suo comportamento, dalla libidine lussuriosa fino all'abuso di alcol, è il picco di una montagna erosa nel tempo e dall'interno: sono infatti i suoi stessi figli, la sua prole, ad odiarlo e solo Alëša e padre Zosima possono perdonargli questa dissolutezza che dilapida la reputazione di un'intera famiglia e la conduce sull'orlo di un baratro.
Nel pubblico ho notato Umberto Orsini, celebre per aver portato in tv nel 1969, proprio Dostoevskij con i suoi Karamazov, e riascoltiamo da lui il monologo de La leggenda del Grande Inquisitore che nella versione di Mauri è interpretata da Roberto Sturno, diabolicamente illuminato da un occhio di bue giallo ocra, a sottolinearne l'eretiche sue parole:
"E se a migliaia e decine di migliaia ti seguiranno in nome del pane celeste – domanda il Grande Inquisitore a Cristo –, che avverrà dei milioni di miliardi di esseri che non troveranno la forza di disdegnare il pane terreno per quello celeste? O forse a te sono care solo quelle decine di migliaia di esseri grandi e forti, mentre gli altri milioni di deboli – numerosi come granelli di sabbia marina, che tuttavia ti amano – devono essere solo materiale per i grandi e per i forti? (...) L'uomo non vuole essere libero, vuole qualcuno che decida per lui, questo vuole l'uomo: a questo può rispondere il Grande Inquisitore. Ma che cosa gliene importa agli uomini della libertà? Vogliono il pane terreno! Gli uomini sono deboli e si sono allontanati da Cristo, non hanno bisogno né della libertà tantomeno della verità. Per questo il Grande Inquisitore cercherà di dare agli uomini ciò che vogliono: il benessere materiale. Così la “sua” Chiesa conquisterà la loro cieca “obbedienza. Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo". Ecco, questo il sunto non dei fratelli Karamazov, ma dell'umanità intera, che agogna il giogo di qualsiasi Chiesa, questa oppure un'altra orientale, pur di restare nell'illusione della felicità terrena, per questo il male. il diavolo, travestito da Inquisitore, è piu' forte, perchè gli uomini hanno paura di scegliere e che la loro scelta presupponga una responsabilità.
Sul palcoscenico si respira un'aria di fissità nel tempo inarcato su sé stesso, e le scene di Francesco Ghisu, sono semplici, calde nei colori bruniti e con poca mobilia, ma sempre uan finestra enorme che si apre su un fuori che non entra mai, non spunta mai qualcosa che colpisce e modifica la storia già condizionata di questa famiglia, e che tramite il servo-figlio Smerdjakov, dopotutto la libera dalla sua cancrena. Non parlo solo del padre, ma anche di Dimitrij, altra presenza nefanda e specchio del padre, che troverà la sua "resurrezione" nel carcere siberiano, dove lo stesso Dostoewskij è finito dal 1850 al 1854 (arrestato nel 1849 perchè facente parte di un circolo di rivoluzionari anarchici e condannato a morte, poi graziato sul patibolo). E' chiaro che riflessi di sé stesso si trovano ovunque, anche nei quadri negativi riflessi da Raskolnikov a Stavrogin, fino a Ivan e Dimitrij.
Perfetti baluardi di un teatro serio e autenticamente votato alla scena, Glauco Mauri e Roberto Sturno hanno adombrato nel loro spettacolo tutta quella scala di grigi fino al nero nerissimo di un autore complesso come lo scrittore russo che ha distinto l'800 nel prima e nel dopo di lui, in quell'analisi senza requie dell'animo umano che il teatro ci permette di condividere con un patimento finalmente sopportabile.