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Teatro Olimpico. L'Orchestra di Piazza Vittorio salpa per la propria isola multietnica
Una dolce melodia evoca il rumore delle onde; i musicisti oscillano da un lato all’altro, mimando il movimento dei corpi su una barca; sullo sfondo schermi a forma di oblò riproducono paesaggi diversi. Si apre così, suggestivamente, lo spettacolo “Il giro del mondo in 80 minuti” dell’Orchestra di Piazza Vittorio al Teatro Olimpico di Roma, in scena dal 7 al 24 marzo.
È subito chiaro sin dal titolo, ispirato ad un romanzo di avventura di Jules Verne, che lo spettatore per 80 minuti, attraverso la musica, sarà condotto verso altrovi lontani, insieme ai personaggi in scena, tutti viaggiatori che aspirano a salpare con la zattera di legno. I ruoli sono evidenti: il direttore dell’Orchestra, Mario Tronco, rappresenta, infatti, il comandante della barca, una parte dei musicisti il suo equipaggio, l’altra, viandanti occasionali che per imbarcarsi devono presentare una valigia e una canzone.
Tale è la cornice del concerto, che lascia intuire come l’evento teatrale, in questo caso, fonda mirabilmente codici diversi: il linguaggio della musica e della recitazione, infatti, si alternano e si legano indissolubilmente tra loro, trascinando il pubblico nei meandri di una trama avvincente, in cui assumono rilevanza fondamentale l’elemento visivo oltre a quello uditivo.
Tunisini, indiani, cubani, arabi, italiani, sono tutti personaggi che ambiscono a salpare e ognuno, pertanto, porta con sé la musica delle proprie origini, le proprie tradizioni, indossando anche costumi che testimoniano la provenienza e le eterogenee radici di ciascuno. Il caleidoscopio di colori concretizza, quindi, visivamente il mosaico dei suoni, di lingue e di storie che si intrecciano.
Ed ecco che si ricreano le magiche atmosfere del deserto arabo con il suono del liuto, l’oud; si evocano le danze e i rituali tipici dell’Africa Occidentale con lo djambe; il flauto andino lascia riecheggiare frammenti di un mondo lontano nel tempo e nello spazio. E, intanto, si viene incalzati dal ritmo vibrante della tabla e ammaliati dalle dolci note della kora.
Strumenti poco noti riempiono, pertanto, la scena, fondendosi con quelli consueti del repertorio classico occidentale come il trombone, la viola, il violoncello e con il sax e altri più moderni come la chitarra acustica ed elettrica. Nuove sonorità si creano proprio grazie alla coesistenza perfetta di esperienze e suggestioni musicali varie, che confluiscono l’una nelle altre, potenziandosi reciprocamente, in quanto può esserci armonia anche nella diversità.
Tale è il messaggio che viene consegnato al pubblico, il quale, coinvolto in questa avventura, diventa consapevole che non è importante raggiungere una meta, ma il senso del viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare, canta uno dei personaggi.
La musica si fonde, infatti, anche con le parole, diventando per i membri dell’Orchestra occasione per narrare qualcosa della propria terra, della propria vita, dei propri sogni. Si intonano, infatti, anche canzoni malinconiche, che toccano il tema dell’emigrazione, esprimendo la tensione nostalgica di chi, costretto a partire, lascia, comunque, una parte importante di sé nei luoghi che abbandona. Il viaggio, dunque, si sostanzia di una duplice valenza: da un lato si configura come momento di conoscenza, dall’altro può essere fonte di solitudine.
Le vele vengono issate, si è pronti a salpare. Un’ultima canzone tratta dal CD dell’ “L’isola di legno” fa da colonna sonora alla partenza, consegnandoci il senso di tutto l’evento, ribadendo che quell’isola che non c’è, di cui i navigatori vanno tanto alla ricerca e che tanto bramano, altro non è che la propria imbarcazione, grazie a cui ci si apre all’ignoto senza timore, senza riserve. Il vero arricchimento è nel viaggio compiuto con l’altro.
Si svela, in tal modo, la dimensione autobiografica dello spettacolo, in quanto sulla scena si invera la composizione della stessa Orchestra di Piazza Vittorio, al suo decimo anno di attività, che dall’incontro con le più varie tradizioni etniche ha tratto da sempre la propria forza, la propria essenza.