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La verità del gatto. Eco e Marramao commemorano Enrico Filippini
Il 28 febbraio 2014 presso il Teatro Studio dell'Auditorium Parco della Musica di Roma si è svolta una serata speciale dedicata a Enrico Filippini, a 25 anni dalla morte, avvenuta prematuramente (all'età di 54 anni). Filippini fu uno dei membri più significativi (ma anche, in un certo senso, "estravaganti") del Gruppo ‘63: è stato filosofo, scrittore, traduttore, redattore editoriale e, come lo definì Umberto Eco, “inviato un poco speciale” delle pagine culturali de la Repubblica, dove fu lo stesso Eugenio Scalfari a volerlo fin dalla fondazione del quotidiano.
Esercitò la funzione di "inviato culturale" interagendo con tutti i personaggi di rilievo della cultura europea di quegli anni (1976-1988), grazie anche alla sua ottima conoscenza delle lingue straniere, virtù allora rara, anche tra i giornalisti culturali.
Nei mesi scorsi, Feltrinelli ha ristampatoi suoi testi letterari (nel volume L’ultimo viaggio), mentre Castelvecchi si è preoccupata di mandare in libreria il primo volume di un’ampia edizione dei suoi scritti giornalistici (Frammenti di una conversazione interrotta).
La serata ha commemorato Filippini alternando interventi (oltre a Umberto Eco e Giacomo Marramao, hanno preso la parola Nanni Balestrini, Irene Bignardi, Paolo Mauri, Annemarie Sauzeau Boetti e Monica Centanni), letture, proiezioni (Filippini fu infatti anche autore e regista di programmi televisivi) e un breve spettacolo teatrale in cui Marco Solari e Consuelo Ciatti hanno letto alcuni brani scritti o tradotti da Filippini.
La serata comincia con un filmato in cui Fillippini, di origine ticinese, sottolinea come l'Italia di allora gli sembrasse un paese conflittuale a differenza della Svizzera, allora una nazione, a suo dire, ristagnante. Dopo un lungo peregrinare tra Zurigo e Berlino, Filippini scelse alla fine di trasferirsi a Milano, dove seguì i corsi di filosofia di Enzo Paci, Ludovico Geymonat e Antonio Banfi.
Particolarmente interessante l'intervento di Umberto Eco, che ha messo in luce alcuni aspetti apparentemente contraddittori della personalità di Filippini: "Nani" (questo era il suo nickname) Filippini non aveva voglia di lavorare ma ha comunque lavorato come un pazzo tutta la vita per ritardare la scrittura di un romanzo, ha osservato il grande semiologo, il quale aveva presentato il racconto Settembre e sapeva che Filippini aveva in preparazione due romanzi, una monografia teorica dal titolo probabile La relazione di significato e un libro su Husserl, mai usciti. Nel racconto - una sorta di metanarrazione sul progetto di scrivere un racconto, ma anche la storia di come un racconto non avrebbe potuto essere scritto - i personaggi vengono presentati come figure "false", nel senso in cui siamo falsi noi quando parliamo, e si assiste a una scena in cui il malato si oppone all'intervento analitico che rischia di guarirlo. Il narratore si interrompeva continuamente, i due punti emergevano dove meno il lettore se li aspettava.
Si era nel 1962 e intorno alla rivista Il Menabò, fondata e diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, si concentravano grandi intelligenze e brillanti firme; Vittorini aveva chiesto a Eco, per il numero 6, dedicato al rapporto tra letteratura e industria, di presentargli e consigliargli tre scrittori della neoavanguardia, che l'anno dopo sarebbe diventata il Gruppo 63. Eco, che associò a Filippini Furio Colombo e Roberto Di Marco, non fece una presentazione banale, bensì, come disse lui stesso in una splendida introduzione alla raccolta di articoli di Filippini intitolata La verità del gatto, edita da Einaudi, una "dichiarazione di poetica che coinvolgeva a fondo gli autori". Eco, citando il suo stesso scritto, sottolinea come nel racconto Filippini intendesse far "scoppiare dall'interno il meccanismo delle relazioni linguistiche attraverso le quali" i suoi personaggi erano abituati ad esprimersi. Ed è solo a questo punto che li coglie, "accettando il loro linguaggio compromesso, per quello che sono".
Ma il suo intento era anche quello di mettere il lettore nella situazione di chi si accorge del gioco e riesce poi a rendersene libero, quasi ridendone. Per Filippini, prosegue Eco, la letteratura buona deve far ridere, ma lo diceva con un pizzico di paradosso così come diceva che aveva scritto quel racconto per divertirsi, come una presa in giro; ma la presa in giro riguarda il personaggio, che viene, per così dire, menato per il linguaggio, "e costretto a mostrarsi nelle sue mutande ideologiche, ludibrio dei passanti".
Eco rievoca anche un viaggio che fece con Filippini negli anni '70: meta era l'Unione Sovietica, dove l'intelligencija italiana ebbe modo di incontrare, tra gli altri, Viktor Šklovskij, uno dei fondatori del formalismo russo.
Peraltro, lui ed Eco non erano particolarmente graditi all'establishment culturale della sinistra marxista, tant'è vero che Elio Vittorini - secondo Eco - aveva incaricato Italo Calvino di stendere una sorta di "cordone sanitario" intorno a loro, come poi ammise lo stesso autore del Barone rampante.
Si sofferma poi sul rapporto travagliato di Filippini con la scrittura: egli curò libri altrui per dilazionare la scrittura ancora possibile. La sua scrittura doveva essere sempre riferita a testi brevi. Conclude sottolineando che anche Filippini aveva "il sogno di una cosa", citando la celebre lettera di Marx ad Arnold Ruge.
Giacomo Marramo sottolinea di par suo l'eccellente formazione filosofica di Filippini, e l'alta qualità delle sue traduzioni di testi impervi, soprattutto di Edmund Husserl (di cui tradusse La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale e le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica) e Walter Benjamin (di cui tradusse Il dramma barocco tedesco), al quale lo apparentava anche una vaga somiglianza fisica. Noi vorremmo aggiungere che le sue traduzioni husserliane sono pressoché impeccabili, tant'è vero che a ormai 50 anni di distanza non accusano minimamente invecchiamenti né abbisognano di revisioni (più o meno come le traduzioni da Hegel di Benedetto Croce, meno invecchiate di quelle di altri traduttori coevi, a cui le accomuna il nitore del dettato e la felicità nella scelta dei traducenti).
Il suo maestro all'Università di Milano, Enzo Paci, avrebbe voluto che Filippini intraprendesse la carriera universitaria, ma altre furono le sue scelte. Del resto, lo storico della filosofia Paolo Rossi Monti durante un convegno a Reggio Emilia dedicato alla figura del primo fenomenologo italiano e tra i maestri di Filippini, Antonio Banfi, osservò come la fenomenologia richiedesse dieci anni per essere assimilata, come gli studi di medicina.
L'università di quegli anni - soprattutto quella italiana - a Filippini sembrava però una gabbia troppo rigida, in quanto non consentiva quella contaminazione dei saperi che oggi per noi oggi sembra scontata e familiare: per lui contaminare i generi e i saperi erano una condizione imprescindibile di quella curiosità intellettuale che connota l'autentico filosofo.
Del resto, il suo modo di fare giornalismo gli permetteva di fare il "filosofo dei confini": il filosofo vero è sempre stato un corsaro che elude la vigilanza delle guardie confinarie delle discipline. Questo si nota anche in alcune sue interviste, come quella a Michel Foucault da cui viene fuori uno straordinario ritratto romanzato del filosofo francese, oppure in quella che si potrebbe chiamare «l'intervista non intervista» a Jürgen Habermas (a cui ebbe l'improntitudine di dire che non voleva raccontargli la sua autobiografia), o nell'incontro a Napoli con Ernst Jünger: egli diceva di amare l'incontro anche a onta del dialogo: paradossalmente, a lui interessava piuttosto trovare un punto di attrito con coloro con cui si confrontava che un punto di convergenza.
Notevole fu anche la sua traduzione della Pentesilea di Kleist, di cui vengono letti alcuni dei versi più significativi. Del resto, ha lasciato casse di pagine scritte pur pubblicando poco: se Mercurio avesse procreato un figlio sarebbe simile a Enrico Filippini, amavano dire alcuni dei suoi amici e colleghi del Gruppo '63, che fu una specie di tigre di carta che fece molto rumore.