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Villa di Livia. Eikones, mito di donna
Eikones, è il primo capitolo di una tetralogia firmata da Cecilia Bernabei: le sue "voci riflesse" al femminile si esplicitano con cinque voci di donna che hanno preso le sembianze di Penelope, Messalina, Rosvita di Gandersheim, Costanza D’Altavilla e Christine de Pizan. Nella cornice romana della Villa di Livia al Lauretum (Prima Porta), nell'ambito della rassegna Teatri di Pietra lo scorso 28 giugno, tra le otri caduche e la musiche curate da Bernabei con il supporto tecnico di Aurelio Gatto e le quattro attrici Elena Baroglio, Nunzia Mita, Angela Telesca, Eleonora Turco, che hanno loro concesso una voce, riflessa nell'antichità del parco archeologico.
Finalista al Premio CTAS 2016 e vincitore del Premio Fersen 2017, poi riadattato nella veste attuale con il titolo Eikones, voci riflesse, è un criterio cronologico, oltreché mitologico, quello che ha guidato la nostra drammaturga alla ricerca di un fil rouge che unisca le storie di donne dall'antichità ai primordi della modernità: da Penelope fino a Christine de Pizan, da Omero fino ad una voce di donna completamente emancipata già nel lontano '400, in pieno umanesimo ed alle soglie del glorioso rinascimento italiano, precursore di tutti gli altri in Europa.
Penelope, sguardo sulla tela e occhi rivolti al cuore che non può appannarsi nel tempo: “casta nel cuore e debole nella carne”, un ossimoro esplcitato dal desiderio che prova per il più bello e regale dei pretendenti Proci, Anfinomo, il “108esimo” pretendente al quale si concede dopo 107, sicura dell'abbandono eterno di Ulisse che si trova invece sulla soglia della reggia di Itaca. Della casta Penelope, tramandata così da un culto maschile per il focolare domestico di cui la Beatrice di Dante è somma rappresentante, rimangono i cocci vergati dal desiderio ineludibile in un passato evocato dal dolce ricordo nostalgico della riedizione del celebre canto arrangiato per controtenore, cornamusa e organo da Arvo Pärt My Heart's in the Highlands, dall'omonima poesia di Robert Burns del 1789 (qui in un'edizione con Else Torp alla voce e Christopher Bowers agli strumenti):
My heart's in the Highlands, my heart is not here,
My heart's in the Highlands a-chasing the deer
Chasing the wild deer, and following the roe;
My heart's in the Highlands, whereever I go.
(Il mio cuore è nelle Highlands, il mio cuore non è qui,/ Il mio cuore è nelle Highlands, cacciando il cervo/ cacciando il cervo selvatico, e seguendo il capriolo/ Il mio cuore è nelle Highlands, ovunque io vada. Traduzione mia.)
I toni elegiaci di Pärt – su cui ho lungamente scritto, in fondo a questa recensione sono annotati i link diretti agli articoli dedicati al compositore – sono il ponte che lega a Messalina, uccisa per motivi politici dall'imperatore Claudio suo coniuge, per timore che lo spodestasse e rendesse il suo amante Gaio Sillo imperatore. Sposata con un uomo brutto, zoppo, più anziano di trent'anni, ovvero Claudio, Valeria Messalina, morta a 23 anni, fu costretta da Caligola a sposarlo quando lei ne aveva solo 14 e gli diede tre figli: Claudia Ottavia, Tiberio Claudio e Cesare Britannico. Di lei si diceva si prostituisse “ignuda” col nome di Licisca e si concedesse “stanca ma mai sazia”. Fu colpita dalla damnatio memoriae, il suo nome fu cancellato da qualsiasi documento ed i suoi monumenti a Roma furono distrutti.
Nemmeno l'imperatrice Costanza d'Altavilla (Palermo, 2 novembre 1154 – Palermo, 27 novembre 1198) fu esente da voci diffamatorie, quando aspettava il futuro imperatore Federico II, si pensò che fosse incinta del “dimonio” in quanto l'età avanzata, 40 anni, era sospetta e così partorì “sulla pubblica piazza di Palermo” secondo la Cronica del Villani, e così vennero fugati i dubbi. Consorte di Enrico VI di Svevia, anche lui subì i medesimi sospetti, alla fine dissolti anch'essi dalla di lei tenace prova assicurando l'impero al piccolo Federico, cui fu portata via dopo quattro anni da Madonna Morte.
L'ultimo passo viene dedicato ad una donna emancipata nel senso più odierno del termine: Christine de Pizan, o Christine de Pisan (Venezia, 1365 – Monastero di Poissy, 1430 circa), infatti, si guadagnò gli “sghei” col lavoro della piuma, scrivendo e intessendo relazioni favorevoli per sé – le committenze in particolare dei duchi Filippo II di Borgogna e Giovanni di Valois -, e la sopravvivenza della sua famiglia, che da sola dovette mantenere dopo essere rimasta vedova nel 1390 dell'amato marito, come ricordano i suoi versi più famosi:
Sono sola, e sola voglio rimanere.
Sono sola, mi ha lasciata il mio dolce amico;
sono sola, senza compagno né maestro,
sono sola, dolente e triste,
sono sola, a languire sofferente,
sono sola, smarrita come nessuna,
sono sola, rimasta senz’ amico.
Calligrafa, scrittrice e poetessa francese di origini italiane, è alla corte di Carlo V, come i sovracitati committenti fanno notare, si preoccupò di conferire alle donne una nuova accezione morale, in contrasto con quella “viziosa” diffusa dal Boccaccio. Il titolo dell'opera devoluta all'elevazione delle donne si riferisce ad un mondo utopico prefigurato ne La città delle dame, nell'ottica della concezione di ”nobiltà d'animo” di Guinizzelli, dove si apre “la porta della città” a sante, eroine, poetesse, scienziate, regine, che finora non hanno avuto voce, tantomeno riflessa.