Supporta Gothic Network
La Vita Felice. Giù le mani dal liceo classico! Un manifesto "reazionario"
La casa editrice La Vita Felice/Booktime ha appena mandato in libreria un agile volumetto di Miska Ruggeri, Giù le mani dal Liceo Classico. Un manifesto reazionario (sono appena 51 paginette; in realtà 32, perché il testo del libro comincia a pag. 19 e finisce a pag. 51. Prima c'è la prefazione di Massimo Fini e ci sono i ringraziamenti), nella collana dal nome "adorniano" Minimamoralia. Il libro è scritto con piglio brillante, prosa fluida e accattivante, e con una vis polemica mai eccessiva. Va però detto che, benché l'autore provenga da studi di filologia classica, il libro ha un taglio molto più giornalistico di quello, su un tema analogo, del filologo Michele Napolitano, già recensito su questa rivista (Michele Napolitano: Il liceo classico: qualche idea per il futuro, Roma, Salerno editore, 2017).
Il pamphlet è preceduto da un breve prefazione di Massimo Fini, giornalista di area "non conforme", il quale esprime piena adesione e consenso alle tesi dell'autore, ribadendo come si tratti di un vero "manifesto reazionario" e confessando che il liceo classico lo ha formato in modo ampio e profondo, benché da studente non avesse un buon profitto. Fini rileva però, con una punta di malignità, come le doti intellettuali di Ruggeri siano andate a finire in giornali poco o nulla interessati alla cultura, quasi deplorando che non si sia, invece che al giornalismo, dedicato anima e corpo alla filologia classica. E in effetti, che le pagine culturali de Il Giornale (con qualche eccezione), e peggio ancora di Libero, lascino a desiderare confermerebbe il vecchio pregiudizio sull'incultura dell'elettorato di destra. Pregiudizio duro a morire, ma che una volta non corrispondeva al vero: ricordo quanto fosse interessante la pagina culturale de Il Tempo di 30-40 anni fa (quando la testata romana era diretta da Renato Angiolillo e poi da Gianni Letta, e vantava collaboratori come Ettore Paratore, Mario Praz, Leone Piccioni, Ugo Spirito, ecc.). Oggi l'unico quotidiano "di destra" che abbia una sezione culturale più che dignitosa è Il foglio.
Al di là della scrittura fluida e brillante, il pamphlet è alquanto superficiale e contiene svariati luoghi comuni. Sorprendente è la polemica senza argomenti solidi contro l'uso dell'antropologia culturale negli studi relativi al mondo classico (con giudizi denigratori e non motivati contro studiosi del calibro di Christian Gottlob Heyne, precursore dell'approccio antropologico in filologia nella Germania di inizio Ottocento, o di James Frazer, il grande storico scozzese autore de Il ramo d'oro. Arnaldo Momigliano avrebbe trasecolato). Ma la vera bestia nera dell'autore è il filologo Maurizio Bettini, le cui posizioni peraltro appaiono un po' caricaturate e non discusse adeguatamente nel merito. Anche dell'antropologia usata da Bettini si dice che si tratta di qualcosa di "cattivo" che condurrebbe a un'indebita attualizzazione dei classici, ma senza che venga spiegato bene il perché.
Non poteva mancare una certa anglofobia: l'autore tuona contro l'inglese lingua killer, ricorrendo però a svariati anglicismi (!), come appunto "killer" o "last but not least" nelle prime pagine, cosa ovviamente contraddittoria. In realtà, egli non si scaglia solo contro l'inglese (derubricata a "lingua da portinai", secondo un suo docente universitario non meglio precisato, che preferiva citare in francese e tedesco), ma anche contro l'ampliamento dello studio di tutte le lingue straniere nel liceo classico, nella convinzione, probabilmente fondata, che oggi si imparino meglio con soggiorni di studio all'estero: ma sottovaluta che ciò è possibile solo per chi può permetterselo.
Oltre agli anglicismi, fa ricorso anche a un paio di germanismi, invocando una mitica Altertumswissenschaft (ossia la scienza dell'antichità [classica]) come antidoto terapeutico a indebite irruzioni dell'attualità nel campo delle lettere classiche, senza però chiarirne i presupposti: ma tant'è, il termine tedesco dovrebbe servire a intimidire i lettori semicolti. Vengono in mente le considerazioni di Tullio De Mauro enunciate nel celebre saggio sulla "spiazzistica", ossia le regole del parlare difficile: "si prendano alcune parole banali e si traducano di peso in qualche superlingua: latino e greco, inglese e tedesco" (Tullio De Mauro, "Com'è facile parlare difficile", in L'Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 198). Si ottiene l'effetto di rendere la parola più evocativa e rimandante a una qualche scienza arcana. In ogni caso, chiunque abbia un po' di familiarità (e sicuramente l'autore ce l'ha) con gli studi di filologia classica, sa bene che la più grande Altertumswissenschaft tedesca ha sempre praticato un approccio interdisciplinare, testimoniato proprio dalla più significativa opera che nel suo titolo reca questo termine, ossia la Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft di August Friedrich Pauly e Georg Wissowa. Senza contare che contro una concezione troppo angusta della Altertumswissenschaft si era già scagliato Nietzsche, nella sua celebre polemica contro Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff sull'essenza dell'arte tragica, con considerazioni simili a quelle del suo amico Erwin Rohde e a quelle successive di Eric R. Dodds. Lo stesso Nietzsche che poi viene, paradossalmente, citato con consenso (ma fraintendendo parzialmente il passo tratto da Sull'avvenire delle nostre scuole, che viene decontestualizzato come se fosse un'apologia della mera trasmissione dell'esistente).
E se non bastasse, non manca la citazione del presidente americano Thomas Woodrow Wilson, graziosamente elargita da Luciano Canfora ("Non si riuscirà mai a trovare un equivalente alla letteratura classica, né il contatto immediato con questa si potrà ottenere senza il possesso sicuro della grammatica e della sintassi che ce ne dischiudono il tesoro"). Come al solito gli americani sono "brutti e cattivi" quando propongono la cultura di massa subordinata al mercato, ma – sorpresa – vanno benissimo quando riscoprirebbero e valorizzerebbero la cultura classica (tesi in realtà piuttosto adombrata da Massimo Fini nella sua prefazione). Ovviamente l'autore si guarda bene dal dire che tale valorizzazione riguarda le scuole di dottorato in Classics all'università e non ha niente a che vedere con il nostro liceo classico. Sempre in tema di modelli stranieri, sostiene che i docenti liceali tedeschi di prima nomina guadagnerebbero 3500 euro netti al mese. Se avesse controllato meglio, si sarebbe accorto che sicuramente guadagnano più dei nostri, ma senza arrivare a tali cifre. Arrivano a 3300 euro praticamente a fine carriera (a 3500 solo in Baviera) e cominciano con 2200 euro netti.
Ovviamente l'autore invoca, more solito, il nome di Giovanni Gentile (ma è un Gentile immaginario, che serve come riferimento polemico, ben distante dalla vera figura storica del filosofo di Castelvetrano) come presunto nume tutelare del liceo classico di una volta (ignorando, quando si schiera contro l'introduzione di diritto ed economia nei licei classici, che nel liceo originario autenticamente gentiliano la materia "diritto ed economia" era presente, affidata al docente di filosofia e storia; venne poi soppressa dal ministro Vincenzo Arangio-Ruiz nel primissimo dopoguerra). E comunque è espressione di generico misoneismo (e non di critica meditata, per quanto "reazionaria") il voler assimilare materie come diritto ed economia a discipline un po' "farlocche" che hanno in certi casi ampliato la cosiddetta "offerta formativa" di vari licei, come la storia del cinema o i corsi di gastronomia, in una specie di deprecazione generica verso ogni sperimentazione o verso ogni proposta che vada al di là degli argomenti studiati dall'autore nel liceo frequentato da adolescente, ovviamente assimilato tacitamente al mitico "liceo gentiliano" (il che spiega anche la sua deprecazione per la "geostoria gelminiana", senza però che motivi minimamente in che cosa sarebbe metodologicamente sbagliata – manca ovviamente qualsiasi riferimento a chi il concetto di geostoria l'ha coniato con ben altra serietà, ossia il grande storico francese Fernand Braudel). E dire che nel liceo classico non debbano aver posto teatro e danza è un'affermazione così assurda che non merita neppure di essere confutata: ovviamente, nessuno pretende di ridurrre le ore di greco e latino per sostituirle con ore di teatro, ma i laboratori teatrali dei vari licei, come il mio, in cui si rappresenta il teatro antico, sono la migliore espressione dell'autentica assimilazione della cultura classica in carne et sanguine.
Del resto, ci aveva pensato ben quarant'anni fa Quirino Principe, a suo modo un "reazionario", ma di amplissime vedute, in un libro edito da Rusconi, editore allora definito "di destra", a confutare tesi così retrive: "L'idea di educazione da cui sono partito vuol essere il più possibile capace di dare risposte al mondo moderno, e si potrebbe dire, semplicemente, che è moderna. Non è progressista, ma mira al progresso inteso nel modo più giusto: acquisire senza dimenticare, sostituire senza distruggere. Questo modo d'intendere il progresso è la tradizione, parola sospetta alle menti incerte e confuse che confondono la tradizione con la reazione. La tradizione è sempre inaccessibile al reazionario: costui è cultore del passato in quanto tale, mentre la tradizione, finché vive, continua oggi e può continuare domani [...]. Io affermo che nella scuola secondaria di oggi si studia troppo male e troppo poco (!) il latino, e troppo poco o per nulla le scienze naturali, l'economia, la sociologia. Vorrei più dell'uno e più delle altre. Sono retrivo o sovversivo? Ma l'ideologo, sospettoso e anzi offeso, fa capire che è vietato desiderare l'una cosa e l'altra insieme; a lui, uomo dalle idee chiare, sembra impossibile che si possa affermare ad un tempo l'importanza del latino e della sociologia" (Quirino Principe, Manuale di idee per la scuola, Milano, Rusconi, 1977, pp. 180-181).
Ruggeri inorridisce poi al solo pensiero del liceo delle scienze umane con opzione economico-sociale senza latino: e perché mai? Non è certo un concorrente del liceo classico, come viene definito: è semmai il cugino dell'istituto tecnico commerciale con meno matematica e più scienze umane. E serve anche ad evitare che il liceo classico si popoli di allievi che non hanno voglia di studiare seriamente.
Di assoluta intransigenza è la sua polemica contro le proposte di Bettini volte a riformare la seconda prova dell'esame di maturità, ma senza che formuli alcuna proposta alternativa. Il discorso di Ruggeri si riduce a questo: Bettini è "cattivo" perché proporrebbe l'abolizione della versione, mentre io con il mio "reditus ad Gentilem" sono "buono" perché difendo la vecchia versione sic et simpliciter. Qua e là c'è qualche suggerimento interessante, come quella di ampliare la rosa degli autori canonici di latino e greco, ma per il resto non trovo molto di più di un'accorata invocazione nostalgica, che piacerà sicuramente ai tradizionalisti ad oltranza e agli immobilisti per partito preso. Stupisce poi che manchi il solito luogo comune sul latino come lingua logica per eccellenza. In conclusione, un libello come avrebbe potuto scriverlo Diego Fusaro, senza però le sue incrostazioni marxisteggianti.
Insomma, pur nei limiti di un pamphlet, ci saremmo aspettati qualcosa di più. A che pro altrimenti spendere soldi e prendersi la briga di leggerlo? Per risentire ovvietà e frusti stereotipi, esposti con un tono perentorio, dogmatico e apodittico, quasi in contrapposizione a quello critico e problematico del libro di Michele Napolitano? O per sentirsi membri di un esclusivo club di reazionari, che ricorda gli avversari della "nuova cultura" introdotta dai sofisti e da Platone nell'Atene del V sec. a. C., come li tratteggiò Umberto Eco nel 1963 in un memorabile pastiche ("Dove andremo a finire?"), pubblicato nel Diario minimo?