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A Firenze Liberi dalla Guerra
La Scuola di Teatro dei Teatri Possibili presenta venerdì 26 Giugno ore 21 al Teatro Everest di Firenze Liberi dalla Guerra con la regia di Sergio Salvi. Presentazione e profilo di Francesca Mancini. Con Silvia Borroni, Rachele Giglioni, Lavinia Goedecke, Fiammetta Gori, Francesca Mancini, Federica Morgione, Luca Pighini, Sandro Rapone, Francesco Romiti, Sara Rutigliano.
Con la partecipazione straordinaria di Tommaso ed ancora Sandra Caputo, Fabio Gincuie, Iuliana Mazilu, Rachele Nieri, Tiziana Randò.
SCENA DEI DEPORTATI SUI TRENI
Bambini, donne, uomini si avviano a fare,con grande probabilità, l’ultimo, allucinante viaggio della loro vita o, comunque, a fare quella che si considera essere stata l’esperienza disumanizzante per eccellenza. Ancora, però, queste persone non sanno cosa aspettarsi e portano sui loro volti la paura, il disorientamento, lo strazio, ma anche la speranza di salvarsi e di salvare quel poco che i nazisti, per il momento, avevano lasciato loro. Ecco che una valigia diventa l’espressione della propria identità assumendo per quelle persone un’importanza enorme.
Le SS trattano i deportati come pecore: la violenza è contemporaneamente fisica – calci, bastonate, spinte servono ad ordinare il “gregge” – e psicologica – lasciano queste persone brancolare nel buio senza dar loro alcuna informazione sul viaggio e sulla destinazione. Una volta montati sui “carri bestiame” tutti cercano, con le proprie forze e i ricordi della loro vita – per ora intatti – di ricavarsi uno spazio di sopravvivenza, di continuare almeno a respirare, di mantenere la lucidità per pensare e l’umano nelle espressioni più diverse, sempre drammatiche: volti attoniti si alternano a volti arrabbiati, la comprensione e la solidarietà lasciano spazio all’egoismo, alla perversione, agli isterismi, al panico, alla rassegnazione e ci sarà chi piange, chi sviene, chi grida aiuto, chi consola, chi è muto. Ciò che, più di tutto, deve emergere è il disorientamento dei deportati, catapultati, da un giorno all’altro, all’inferno, sottoposti a torture inimmaginabili, inimmaginate fino ad allora.
L’arrivo al Lager, per certi versi, potrebbe essere liberatorio dopo un viaggio infinito, pieno di disagi, di morte per alcuni, di devastazione per altri. Dai vagoni usciranno esseri umani morti, feriti, febbricitanti, sporchi di feci e di orina, magari appesi a quell’unico bagaglio che, con quelle poche forze ormai rimaste loro, sono riusciti a salvare. Ma le SS sono lì, urlano in una lingua sconosciuta e qualsiasi suono può voler dire tutto, separano le mogli dai mariti, i figli dalle proprie madri, i fratelli dalle sorelle e, ormai cosa da poco, quell’unico bagaglio, ultimo contatto con la vita passata, viene sequestrato.
SCENA TRATTA DA SCHINDLER’S LIST
Gli operai della fabbrica sono commossi, riconoscenti nei confronti dell’uomo che li ha salvati. Per loro Oskar rappresenta la loro stessa vita: potevano essere morti e non lo sono grazie a lui.
Il bambino, espressione dell’amore puro, disinteressato, consegna a Oskar la lettera che potrà salvarlo. Ogni firma apposta sul foglio è la testimonianza di ogni vita salvata, così la lettera contiene in sé l’importante messaggio di concentrarsi sui vivi e non sui morti.
Ma subito dopo, il sentimento della morte torna e Oskar piange perché si rende conto, mano a mano che parla con Stern,di quanto di più avrebbe potuto fare. Il senso di colpa lo pervade, lo sovrasta, gli toglie il respiro e lo costringe al pianto, che si rinnova, mano a mano che dentro di sé scorrono immagini di oggetti che avrebbe potuto barattare con preziose vite umane.
Il pianto è anche una richiesta di aiuto, di condivisione con la moglie della quale ricerca lo sguardo. Lei si stringe a lui, insieme agli operai, in un abbraccio che sembra abbracciare il dolore del mondo, quel dolore universale che trascende il singolo uomo.
Nel frattempo, una donna, prodotto della disumanizzazione, vaga in uno stato di trance ripetendo ossessivamente la stessa frase, come se smettere di pronunciarla, separarsene, vorrebbe dire separarsi dal marito, prendere atto della triste realtà della sua scomparsa. Continuare a cercarlo sembra essere l’unico modo per tenerlo in vita
SCENA DELLA MORTE DI ANNA FRANK
Siamo nel campo di sterminio,nei volti dei deportati non c’è più traccia della loro identità, sono ridotti a corpi tremolanti per il freddo e le malattie, non si distinguono più l’uno dall’altro. Il poco fiato rimasto serve per emettere rantoli, la poca forza serve per strisciare o dondolarsi come a rievocare, con il movimento, il caldo abbraccio della madre o, addirittura, del liquido amniotico.
La desolazione pervade tutto e tutti.
Ma la musica, per un attimo, resuscita i morti, li anima, restituisce loro l’umanità perché si fa ricordo emotivo di ciò che sono stati. I volti si illuminano, le forze tornano con la speranza, il cuore si scalda al suono della voce del rabbino che è la voce della loro identità, della loro storia, dei loro genitori.
Poi, di nuovo, l’oscurità, le grida delle SS. Torna l’orrore con il ritorno alla realtà del lager. Il volo è finito. Tutto ciò fa da sfondo alla tragica vicenda della morte di Anna, quella giovinetta che assaggia per l’ultima volta la vita, abbandonandosi ad un ballo straziante e insieme vitale, tra le braccia di una compagna. Anna ha mantenuto in sé bontà e dignità; nonostante muoia,il nazismo non ha vinto con lei che resta umana fino alla fine.
SCENA DEGLI ATTORI CHE ENTRANO DALLA SALA
Gli attori, carichi del loro narcisismo e delle dinamiche di gruppo che piano piano si palesano, fanno l’ ingresso in quello che sarà il teatro dove dovranno fare lo spettacolo. Sono animati dall’entusiasmo, dalla curiosità di conoscere il luogo dell’esibizione di cui, in maniera spavalda, verificano l’adeguatezza.
Ci sarà chi marca passi di danza, chi controlla l’acustica, chi verifica la consistenza del pavimento … Gli attori escono di scena e rientrano da personaggi: gli ebrei che raccolgono gli effetti/affetti personali perché costretti ad abbandonare le loro abitazioni verso una destinazione sconosciuta.
Quei gesti organizzati rappresentano anche un modo per rassicurarsi, tenendo lontani pensieri minacciosi. L’azione che placa l’ansia.
SCENA TRATTA DA POLVERE DI STELLE
Clima da avanspettacolo: leggerezza, ironia, divertimento, colori.
POESIE DI BRECHT
Si susseguono armoniosamente poesie contro la guerra. Questo è lo spazio per la didattica e per la denuncia sociale. Il tono è descrittivo, enfatico, e l’attore diventa il portavoce di un messaggio politico. Il rapporto diretto col pubblico rende l’attore scomodo, fastidioso, provocatorio. Il compito dell’attore è di risvegliare dal torpore coloro che, da spettatori si ritrovano a far parte dello spettacolo, divengono essi stessi protagonisti.
SCENA DELLE VEDOVE DI GUERRA
Le vedove di guerra assistono ai funerali dei propri mariti. Le antiche speranze si sono trasformate in amari ricordi. Gli oggetti che portano sono tutto ciò che resta del loro amore. Il loro cammino verso le tombe dei cari defunti riassume l’estremo saluto dei tanti morti seminati dalla guerra. Ogni loro passo conta un morto. Nei loro commiati si intravedono sentimenti contrastanti, nascosti dietro il velo della dignità: il sarcasmo rabbioso dell’una viene sostituito dalla pacata disperazione dell’altra; un’altra ancora si abbandona, per un attimo, al dolce e appassionato ricordo di un incontro d’amore e poi la vanità, l’ipotesi di un ultimo pensiero fatto dal marito quando ancora pensava di tornare a casa … ognuno di questi vissuti è espresso dall’oggetto che si anima e vive per restituire la voce che la guerra aveva strappato al popolo, al mondo.
Alla fine resta il velo di vedova che sostituisce drammaticamente il velo da sposa. Finito il rito che contiene il dolore, ognuna di queste donne se ne va, sola.
Francesca Mancini