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Horsemen. La sospensione dalla solitudine
Il disagio immediato che provoca The Horsemen dello svedese Jonas Åkerlund è palapabile. Dennis Quaid e Zhang Ziyi sono i due protagonisti per un thriller che irrompe nello splatter e trae il suo humus dall’Apocalisse di San Giovanni ed i suoi quattro cavalieri (horsemen).
Diverso dal precedente L’ultima profezia (The Prophecy, 1995 di Gregory Widen) che era, oltreché complesso, molto circospetto nelle citazioni, qui si entra quasi subito in confusione con i cavalieri ed il paragone con Seven (ancora 1995 di David Fincher) è lontano. Dennis Quaid è preparato ed entra nella parte del padre distratto verso i figli dopo la morte della moglie, si tratta però di uno stereotipo. Il suo incarico di investigatore alla ricerca di un serial killer è la motivazione centrale per cui sostituisce l’affetto con i soldi e senza nemmeno rendersene conto.
Ciò che fa pensare e nelle riprese è piuttosto efficace è la tortura della sospensione, che apprendiamo essere una pratica non proprio così rara nell’universo delle perversioni. Un giretto su google (suspension BDSM) chiarirà il concetto, l’unica differenza è che quella di cui si tratta nel film è inflitta con arpioni ed uncini, come spiegano dettagliatamente, ciò che invece si trova in rete è quasi sempre praticata con bande di pelle ed elastiche (suspension bondage) ed il rischio maggiore è la caduta e non il dissanguamento. Eufemistico dire che metà del film è una “tortura” (in ogni senso).
La retorica del dolore come danno che ci si infligge masochisticamente perché rifiutati (dai genitori, dalla società, dalla scuola) secondo me non è convincente, sebbene in potenza lo sia. E’ vero che il desiderio di darsi la morte per questo esiste, ma non tutti dandosi la morte desiderano soffrire e con ogni mezzo. E’ un passaggio intermedio quello. E ritualistico: è una punizione ulteriore per coloro che pensiamo essere colpevoli di questo danno, non per chi se lo autoinfligge.
L’altra scoperta drammatica del film è la denuncia dell’universalità di questa mancanza di comunicazione tra genitori e figli e che viene esplicitata come ricerca di condivisione nella virtualità del “nulla”. La frase "We are Nothing" chiarisce efficacemente cosa significa il senso di rifiuto e abbandono che si prova per giungere alla scelta di nullificazione.
La distrazione allora rappresenta la mancanza d’amore ed il surrogato sono le dimenticanze, i discorsi finiti a metà, le fughe repentine per il “lavoro”. Un mondo dipinto come possibile solo per chi non ha bisogno di nessuno, per chi basta a sé stesso fino in fondo, ed è e vuole rimanere solo.