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Opera di Roma. La Fura dels Baus. Le Grand Macabre. L'iconica dissoluzione
Un intarsio di colori per la compagnia catalana La Fura dels Baus all’Opera di Roma nello spettacolo Le Grand Macabre di ieri 23 giugno 2009, su musica di György Ligéti (1923-2006) e libretto tratto da La Balade du Grand Macabre di Michel de Ghelderode e composto da Ligeti e Michael Meschke. Sul podio Zoltán Peskó, che l’ha diretto nella sua Prima italiana nel 1982.
La Fura dels Baus è un collettivo di artisti, in questo caso rappresentati dall’ideazione e dalla regia di Alex Ollé con Valentina Carrasco, le scene strabilianti di Alfonso Florens, i costumi post-atomici di Lluc Castels, il fasciante disegno luci di Peter van Praet, gli ipnotizzanti video 3D di Franc Aleu. A loro prima di tutto va il sipario.
Prima dello scostarsi delle tende veniamo colpiti da un logo post-atomico: un teschio giallo in un triangolo nero, uguale a quello che appare sulle zone radioattive ad intimare il pericolo di morte. Sequenze che ritraggono una donna sopra i 40 a casa sua, la sua vita in un reality dove mangia cibo spazzatura (fast/junk food) e si sente male. È lei Claudia, la bambolona gigante adagiata sul palcoscenico a riempirlo. Su di lei luci che riflettono e percorrono il corpo proiettandovi le sue angoscie interiori che divengono sintomo, malattia, stati degenerativi, morte. Diventa uno scheletro per poi sputare dalla bocca Nekrotzar, Le Grand Macabre del titolo, lo zar della Morte interpretato dal basso-baritono Sir Willard White (primo cast, nel secondo Roberto Abbondanza). La supposta Morte duetta con Piet “La Botte” ovvero Peter van Praet, l’allegro sommelier. Inizia la discesa della Morte nei funambolici percorsi alcolici che lo porteranno in un universo, Brueghellandia, grottesco e iconico, dove la musica si fa citazione, onomatopea, rincorsa e confronto con riferimenti antichi, sacri e profani in un mondo in dissoluzione.
Accanto alla morte abbiamo la vita: Eros, nelle persone di Amando e Amanda (Annie Vavrille e Ilse Eerens), un fascio di muscoli disegnati da un costume che li impegna in azioni sincroniche e armoniche, come il canto a due negli occhi di Claudia dove svaniranno dietro una maschera di nuovo macabra, mentre appaiono le figure fetish di Nicholas Isherwood come Astradamors e Ning Liang nelle vesti provocanti di Mescalina. La mescalina è un agente allucinogeno su cui ha scritto Aldous Huxley The Doors of Perception, di cui sembra si siano serviti tutti i personaggi in questa versione psichedelica di un’opera, l’unica di Ligeti, che attinge ad un immaginario alquanto moderno con delle venature post-romantiche. Il periodo in cui fu ideata, tra 1974 e 1977, è piuttosto indicativo: ricordiamo l’esplosione di Dick e della fantascienza, nel 1982 (anno della morte dello scrittore), uscirà Blade Runner di Ridley Scott tratto da Do Androids dream of Electric Sheep? (tradotto in molte versioni, anche italiane col titolo Blade Runner, compresa la prima versione di Fanucci del 1996).
Ritorniamo alla musica: contraltare perfetto della trama, si decompone e si frammenta in mille specchi lucidi colorandosi di percussività à la Bartók quanto di derive ironico-sensuali dalla Pulcinella e dal The Rake’s Progress di Stravinskij. Il tutto miscelato da canti à la Weil, in particolare quelli di Mescalina, e cori antichi intervallati da suoni etnici (bongos che si riferiranno poi ad immagini specifiche dall’emisfero africano come metafora della “fame” come nutrimento necessario). Un puzzle di tipo eliotiano (cfr. The Waste Land di T.S.Eliot del 1922, il terribile dopo Prima guerra mondiale, la Grande Guerra con 18 milioni di morti che ricordano in pochi e destabilizzò completamente l’Europa costruendo i prodromi per la Seconda).
La decomposizione. L’immaginario a cui si richiama La Fura dels Baus è principalmente questo. Una donna le cui parti vive vengono sezionate e dilaniate da occupanti che fuoriescono da tutti i suoi orifizi, che siano essi seni (all’inizio il capezzolo), bocca, intestino, parti intime frontali. Un’invasività perenne che la trasforma e metamorfizza ricordando la prima pellicola della figlia di David Lynch, Jennifer, dal titolo Boxing Helena (1993). Nel film un chirurgo, pur di possedere una donna che lo rifiuta, le seziona arti inferiori e superiori. Qui la dissezione è provocata dagli agenti interni: microbi, bacilli, batteri in uno scenario da day-after che sul corpo femminile prende la forma ed i colori di agenti di polizia corrotti, carabinieri italiani che ballano in una discoteca chiamata col suo nome “Disco Claudia”, fino alla dispossessione completa, un’evirazione al femminile su un territorio conteso da frotte di germi occupanti.
Viene in mente Greenaway con il suo The Blue Planet al Teatro Nazionale in febbraio: anche lì la morte era annunciata, per acqua: l’inabissamento nelle emozioni, grande archetipo del fluido. In Le Grand Macabre le emozioni sono fisiche, turbamenti del corpo che inondano lo spirito e lo minacciano di morte. Lì la minaccia, di nuovo per tutta l’umanità, correva il rischio di essere efficace per via di Noa, la moglie di Noè, che non aveva più fiducia nell’umanità. Qui una donna crede di morire dopo aver ingoiato cibo spazzatura: l’ingollamento continuo e la non discriminazione tra buono e cattivo a livello nutritivo conduce alla morte, come se Nekrotzar fosse l’algido angelo della morte che annuncia la fine del mondo tramite una donna comune, la Donna, ovvero l’agente della creazione.
Una contesa tra germi ed essere umano: i germi che discutono dentro di lei come i primi ministri del Principe Go-Go interpretato da Brian Asawa. Un Ministro Bianco (Eberhard Franz Lorenz), vestito di rosso come i conservatori americani; un Ministro Nero (Martin Winkler), come i democratici, entrambi impegnati a verbalizzare conflitti inesistenti. Ed allora come possiamo stupirci se la Morte stessa è un ciarlatano che scambia l’alcool per sangue umano e che i cocktail finali ci vengano serviti da una Venus-Gepopo Capo della Polizia segreta, la bella e dotata Caroline Stein, un profluvio di capelli lunghissimi e rosa da capo a piedi?
Tumuliamo la sfera del mondo insieme agli Amanti, facciamola lì germogliare insieme alla Morte, che gli fornisca la profondità adatta ad afferrare la realtà, e restiamo lontani da falce, tromba e martello che, invano e parodicamente, innalziamo, come se nello stridore e nel fragore potessimo comandare all’Aldilà.
La direzione fondamentale di Zoltán Peskó ci ha accompagnati insieme alle voci altisonanti di (fra gli altri): Sir Willard White (Nekrotzar), Chris Merritt (Piet), Ning Liang (Mescalina), Brian Asawa (Go-Go), in un inglese beckettiano con echi da Jarry.