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Il piacere dell'onestà di Luigi Pirandello. La stanza della tortura della rispettabilità borghese
Nell’ambito della Rassegna Pirandelliana che, fin dal 1999, a cura della Compagnia Teatrale La bottega delle maschere, diretta da Marcello Amici, va in scena ogni estate nel Giardino della Basilica di Sant’Alessio all’Aventino, sono state rappresentate dal 6 luglio all’8 agosto 2010 (a giorni alterni) Il piacere dell’onestà ed Il berretto a sonagli. Abbiamo qui approfondito la rilettura di Il piacere dell'onestà.
Si tratta di un’opera del Pirandello maturo, scritta nel 1917 (la fase del “teatro del grottesco”), dove possono leggersi molti motivi ricorrenti nella sua poetica, dal sacrificio della moralità in onore dei feticci travestiti dalla forma delle convenzioni borghesi, fino alla menzogna dissimulata sotto una maschera, che opprime e condiziona l’umanità.
La trama della commedia è relativamente lineare: Angelo Baldovino, il personaggio principale (ruolo che deriva da quello di Michelangelo Castiglione, nella novella Tirocinio), impersona il ruolo del marito pro forma, che, dopo aver perso tutti i suoi averi al gioco d’azzardo, si unisce in matrimonio con Agata Renni cosicché possa trasmettere il proprio cognome al figlio che costei attende dal marchese Fabio Colli, uomo già coniugato. Il patto è che vengano rispettate tutte le apparenze e che dopo la nascita del bambino, il neo-marito esca di scena. In fondo Baldovino non fa altro che interpretare un ruolo che il codice d’onore borghese aveva ben definito, quello del marito perbene che copre una relazione non gradita e contemporaneamente assicura al figlio nato da tale relazione il sigillo di una casata rispettabile.
Paradossalmente, il rispetto delle apparenze trasforma in qualcosa di paradossale la forma astratta di vita in cui i personaggi hanno convenuto di rinchiudersi, al punto che tra essi comincia una sorta di gioco dell’onestà, in cui Baldovino si distingue perché conduce fino al parossismo il ruolo dell’uomo onesto e corretto, imponendo a sé stesso una sorta di onestà puramente formale che alla fine, almeno in apparenza, redime lui e Agata, abbandonando il marchese alla sua logica dell’intrigo.
In ultima analisi la commedia assume i connotati del dramma grazie alla coscienza lucida e implacabile che Baldovino acquisisce della finzione utilitaristica e perbenistica in cui ha accettato di immedesimarsi. Egli finisce per indossare la maschera nuda, che equivale alla verità, dimostrando la sua innocenza e trasformandosi in un marito “vero”, mentre gli altri personaggi risultano sconfitti perché sono capaci solo di strumentalizzare le convenzioni dettate dall’ipocrisia sociale.
Anche la scenografia, con le sue linee evocanti particolari futuristi, con le note del pianoforte e le luci sghembe, riflette perfettamente la solitudine del personaggio, grazie anche alla trasformazione del tradizionale salotto borghese in una “stanza della tortura”, in cui si celebra il processo ai personaggi e in cui “ha sede un'infelicità stagnante che non produce né terrore né purificazione” (dall'omonimo studio di Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Mondadori I° ed. 1981). Abbastanza convincenti gli attori, in particolare Marcello Amici che interpreta Baldovino e che ha anche curato la regia della pièce, il quale però tende troppo spesso a invadere lo spazio degli altri attori. Significativi anche Marco Vincezzetti nel ruolo del marchese e Luca Ferrini, che interpreta il cugino del medesimo marchese, e Maurizio Setti, cui viene assegnato il ruolo del sensale tra i due amanti illegittimi.
Antonio Gramsci sosteneva che Luigi Pirandello fosse un "ardito" del teatro. Per Gramsci, Pirandello avrebbe cercato di introdurre nella cultura popolare, che allora si esprimeva soprattutto nel teatro, la dialettica della filosofia moderna, in ciò opponendosi alla Weltanschauung cattolico-aristotelica e alla sua concezione dell’oggettività del mondo “reale”. Una tale visione del mondo si traduce a livello teatrale in caratteri e personaggi che combattono una sorta di lotta paradossale contro il senso comune. Alla fine però rischiano di cadere in una visione solipsistica che tende a trasformare la dialettica pirandelliana in una sorta di sofistica.
Ben si esprime, per bocca di Maurizio, l’autore all’inizio del primo atto: “Cartesio, scrutando la nostra coscienza della realtà, ebbe uno dei più terribili pensieri che si siano mai affacciati alla mente umana: - che, cioè, se i sogni avessero regolarità, noi non sapremmo più distinguere il sogno dalla veglia”. La conoscenza del mondo, per Pirandello, come per Cartesio e soprattutto per Hume e per la tradizione empirista, è sospesa all’esile filo della regolarità delle nostre esperienze. E in effetti, la verità della maschera nuda che Baldovino conquista alla fine non è certo una verità definitiva: si tratta in realtà di un attributo contingente di un presunto assoluto che viene creato e alimentato dal pensiero e dalla volontà.
Come ha scritto Hannah Arendt, nell’età moderna “la verità non è né data né rivelata alla mente umana, ma piuttosto da essa prodotta”: Pirandello non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze questo assunto, con una sorta di relativismo gnoseologico, innervato anche dalle teorie dello psicologo francese Alfred Binet, che concepiva l’io come una “confederazione di anime”: “solo se si trova un punto di equilibrio relativamente stabile in cui esse si compensano e si elidono, ciascuna personalità è in grado di accettare un pactum unionis o un pactum subjectionis delle personalità subordinate all’io egemone” (Remo Bodei).
Del resto, ritornando al giudizio di Gramsci, le commedie pirandelliane somigliano a bombe a mano che scoppiano nelle menti degli spettatori producendo crolli delle banalità interiorizzate e rovine di sentimenti e pensieri. E Il piacere dell’onestà non tradisce le aspettative in questa direzione.