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Rita Marcotulli interpreta i Pink Floyd. Un connubio tra jazz e psichedelia progressive
Ha scritto una volta Theodor W. Adorno che la riproduzione più autentica di un brano musicale è come una fotografia a raggi X dell’opera: ma non nel senso che ne mostri solo il nudo scheletro, bensì in quello per cui è in grado di rivelarne tutta la pienezza strutturale “sottocutanea”. Si può riassumere così il concerto di Rita Marcotulli al MACRO Testaccio del 12 giugno 2010.
Il filosofo e musicologo francofortese si riferiva prevalentemente alla musica classica e all’avanguardia storica del Novecento (soprattutto all’esperienza dodecafonica). Ma potremmo ormai estendere le sue osservazioni anche ai prodotti più alti di quella che egli chiamava, non senza diffidenza, l’«industria culturale». In effetti, il lascito della grande stagione della psichedelia e del progressive è ormai sempre più considerato come un serbatoio di “classici” del rock e della musica contemporanea in senso lato, suscettibili di riprese e interpretazioni anche al di là della fedeltà letterale alla struttura dei brani originali.
E senza dubbio il monumento costituito dalla discografia dei Pink Floyd ben si presta a riletture e reinterpretazioni, tanto più che, dopo la morte prematura di Syd Barrett (2006, ma dal 1970 era ormai uscito dalle scene) e di Richard Wright (2008), ben difficilmente potremmo mai più vedere sulla scena il leggendario gruppo di Cambridge, quantunque Roger Waters e David Gilmour proseguano una virtuosa carriera di solisti, fino ad esplorare perfino il territorio dell’opera lirica (come la Ça ira di Waters, dedicata alla rivoluzione francese).
Il loro essere ormai assurti a classici contemporanei (cosa testimoniata anche da opere letterarie, come il recente Rosso Floyd di Michele Mari, uno dei più acclamati scrittori italiani degli ultimi decenni, pubblicato nel 2010 da Einaudi), autorizza non solo la proliferazione di innumerevoli cover e tribute bands, fedeli “filologicamente” agli originali (una delle migliori in Italia sono i Syd Floyd), ma anche l’affermarsi di alcuni ensemble che vanno ben al di là del concetto di cover, sforzandosi questi ultimi di reinterpretare i pezzi originali dopo averli sottoposti, "adornianamente", ai raggi X. Tra queste band ci sembrano degni di nota gli Acoustic Floyd e la Solar Orchestra, che adattano i brani a una lettura semi-acustica usando gli archi, in primis il violoncello, sulla falsariga di gruppi post rock come i Thee Silver Mt. Zion.
Ma il massimo della radicalità interpretativa ci sembra sia stata raggiunto dalla jazzista Rita Marcotulli, che da vari anni sta portando avanti un progetto di traduzione in chiave jazz dei brani pinkfloydiani più celebri e di quelli meno noti. E non a caso, dopo la splendida performance all’Auditorium Parco della Musica del 7 aprile 2009, la Marcotulli si è esibita il 12 giugno 2010 in un concerto gratuito nell’ambito della Festa dell’Architettura di Roma, presso il Macro Testaccio. Sussiste infatti un legame stretto tra la razionalità dell’architettura ed i suoni dei Pink Floyd (in effetti due di loro erano studenti di architettura a Cambridge), evidente anche nella metafora del disco The Wall. Razionalità che non impedisce però di dare voce anche all’urlo dell’inconscio, così evidente nella poetica di Syd Barrett, e di aprirsi all’improvvisazione strumentale, in un ponte ideale tra il jazz e i metri additivi del progressive.
E da qui è partita la Marcotulli, con un ensemble quasi tutto nuovo di zecca, con l’eccezione di Raiz, l’ex cantante degli Almamegretta, e del bassista Matthew Garrison: il risultato è stato straordinario, perché la cinquantenne pianista romana ha saputo dosare avvedutamente gli arrangiamenti, senza stravolgere gli originali, ma diversificandoli fino ad imprimere una cifra personale alla materia e controllando i punti di fuga dei solisti.
Si comincia con un assemblaggio di suoni e voci campionate, scanditi da una singolare distorsione dei fiati (si sentono excerpts da brani famosi, come Shine on you Crazy Diamond, Wish You Were Here e Time). Seguono inconfondibili le prime note di Astronomy Domine, il brano scritto da Syd Barrett che nel 1967 apriva il leggendario The Piper at the Gates of Dawn, il disco d’esordio della band inglese. Raiz canta stralunato la song barrettiana intrisa di temi cosmonautici e di sgomento di fronte alle immensità interstellari, memore di echi dal motivo “Mars, the Bringer of War”, uno dei movimenti della suite The Planets di Gustav Holst. Eccezionale la tromba “effettata” (amplificata) di Giovanni Falzone, efficacemente contrappuntata dal piano Fender Rhodes di Rita Marcotulli. Si sente improvvisamente un’armonica superiore, che ricorda l’incipit di Dogs, dal disco Animals.
La successiva Cirrus Minor (da More, del 1969) viene cantata con voce da crooner, risultando molto jazzy, ma senza perdere le sue radici di canzone folk progressive.
Segue un’improvvisazione molto sperimentale e “rumoristica”, che da un lato ricorda il "Syncopated Pandemoniun" della suite pinkfloydiana A Saucerful of Secrets (dal disco omonimo del 1969) e dall’altro gruppi della scena industrial, come i Nurse With Wound (anche se il frontman Stapleton rifuta questa etichetta: forse sarebbe più giusto parlare di cosmic-noise), che si sono esibiti recentemente insieme ai Current 93 a Torino e a Londra. L’improvvisazione introduce la celeberrima Money, qui eseguita quasi con ritmo be bop. Il sax di Daniele Tittarelli domina in primo piano, seguito da un assolo di tromba e accompagnato da un gran lavoro della batteria.
Preceduta dalla registrazione del suono di elicotteri, la successiva Goodbye Blue Sky viene interpretata dal cantante in modo molto sofferto. Burning Bridges, invece, dal disco Obscured by Clouds del 1972, antesignano del cosiddetto folk apocalittico, da pièce quasi progressive, diventa una sorta di brano fusion molto dilatato, quasi come l’avrebbero suonato i Soft Machine di Robert Wyatt.
Minimale risulta invece la versione di Shine On You Crazy Diamond: scarnificata, introdotta da un piano suonato nervosamente su tessuto di basso, al posto dell’assolo di chitarra di Gilmour, poi cambia con passione sempre più enfatica. Viene bypassata la lunga introduzione per organo e chitarra, al punto che l’interpretazione di Raiz ricorda quella recente di Christy Moore. Molto simile all’originale, con un pizzico di funk "swingante" in più, suona invece San Tropez, brano “riempitivo” dal disco Meddle del 1971.
A questo punto il concerto sale di tono, perché due lunghi assoli dei fiati, la tromba effettata e il sassofono soprano introducono un’incredibile versione della suite Set the Controls for the Heart of the Sun. Il canto di Raiz, prima indistinto, si libra ripetendo come un mantra ipnotico i versi del titolo. A cui si aggiungono altri versi sinistri e perturbanti, ispirati ad alcune poesie cinesi del IX secolo, dell’epoca della dinastia Tang (ad es. “Witness the man who raves at the wall/Making the shape of his questions to Heaven./Knowing the sun will fall in the evening”, Osserva l’uomo che vaneggia contro il muro/plasmando la forma delle sue domande al Cielo./Sapendo che il sole cadrà di sera). Il pezzo assume una sinistra connotazione di jazz psichedelico: sembra che sia stato immerso in tutta la tradizione del jazz-rock sperimentale ed elettrico, dai Nucleus ai Gong, da John Zorn a Jaco Pastorius, fino a lambire le dissonanze di John Cage e dei King Crimson di Fracture. Poi si "estingue" con un malinconico assolo di piano seguito dal sax.
La conclusione del concerto sembra affidata a una versione di Us and Them (The Dark Side of the Moon, 1973) molto più lenta dell’originale, con grande uso della batteria, dai toni soffusi e smorzati, piano e sax discreti e voce melodrammatica. Una breve Goodbye Cruel World viene aggiunta ispirata a mo’ di coda.
Ma c’è ancora tempo per un paio di bis, invocati da un pubblico piuttosto numeroso e fin qui assorto in religioso silenzio: si tratta di una Crying Song molto simile all’originale e di un’Eclipse dove tutti gli strumenti si sono prodotti in una splendida performance all’unisono, degno suggello di un concerto che ha segnato una mirabile simbiosi tra il virtuosismo del jazz e le sonorità della psichedelia progressive.